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DOPO QUASI vent’anni di marginalizzazione (parzialmente) interrotta dagli shock globali indotti da pandemia e guerra, il Rapporto Draghi sulla competitività europea ha riportato le politiche industriali al centro del dibattito. Sono numerose le discontinuità a cui dare il benvenuto. Si riconosce la necessità di interventi selettivi (individuare quali settori, beni e tecnologie promuovere) capaci di incidere su intere filiere strategiche. In primo piano, vi sono i comparti legati alla transizione ecologica: batterie, pannelli fotovoltaici, turbine per gli impianti eolici. Riemergono dall’oblio strumenti chiave quali la protezione delle industrie nascenti, la sostituzione delle importazioni o l’obbligo per le imprese che ottengono incentivi pubblici di acquistare beni e materie prime europee. Si suggeriscono anche interventi di politica industriale ’verticale’ per integrare i modelli di Intelligenza artificiale (Ia) nei settori strategici. Draghi considera questi settori cruciali per creare “campioni Ue” nel digitale che possano competere con Stati Uniti e Cina. Il coordinamento generale di questi interventi è affidato a un incubatore di Ia “simile al Cern”, un’idea già proposta in precedenti occasioni da economisti dell’innovazione.

C’è spazio anche per ricordare che senza debito comune le politiche industriali di cui l’Europa ha più bisogno hanno poca probabilità di vedere la luce. Anche le divergenze interne vengono individuate come un problema centrale: il Rapporto richiama in modo esplicito la necessità di coordinare le politiche e di evitare ulteriore polarizzazione tra gli Stati membri. Ma non mancano le ombre: le contraddizioni di fondo che vincolano la politica economica europea – regole fiscali che non tengono adeguato conto della qualità della spesa e dei suoi effetti sulla domanda aggregata e sul welfare, competizione tra Stati che inficia la capacità di sfruttare il potenziale del mercato unico – non vengono adeguatamente evidenziate dal Rapporto e si persevera nel dare eccessivo spazio a misure orizzontali e al ruolo del capitale privato quale veicolo privilegiato per finanziare la transizione e colmare il divario tecnologico nei confronti di Stati Uniti e Cina. Nel campo dell’Ia, il Rapporto muove critiche molto dure all’impianto regolatorio europeo senza considerare che il quadro normativo europeo sulle tecnologie digitali, anche se sicuramente migliorabile, è sempre stato considerato alla base di quello che è stato definito ’effetto Bruxelles’: quando il Regolamento generale sulla protezione dei dati è diventato legge, i giganti tecnologici statunitensi hanno dovuto adeguarsi, e diversi governi hanno scelto di allinearsi ai principi e alle regole principali per proteggere la privacy dei cittadini – e i diritti digitali – in modo più ampio. I regolamenti mirano a garantire che la direzione dello sviluppo tecnologico in questo campo sia compatibile con democrazia, protezione dei cittadini e sviluppo di beni pubblici.

Il vero problema, tuttavia, è lo scarto tra le ambizioni del Rapporto Draghi e la volontà politica di adottare gli strumenti necessari per realizzarle all’interno di un quadro di governance che rimane intergovernativo. Il Rapporto, dopo aver individuato come priorità dell’Ue l’innovazione, la relazione virtuosa tra decarbonizzazione e competitività e la sicurezza economica, sottolinea i passi necessari: il finanziamento degli investimenti anche ricorrendo al debito comune e il rafforzamento della governance europea attraverso un nuovo ’quadro di coordinamento della competitività’ che affronti solo le priorità strategiche a livello dell’Ue – ’Priorità per la competitività dell’Ue’ – formulate e adottate dal Consiglio europeo. Draghi propone, inoltre, di estendere il voto a maggioranza qualificata a più aree e, in assenza di consenso comune, di utilizzare la possibilità per un gruppo di membri UE di fare passi avanti nell’integrazione europea con il consenso unanime degli altri.

Ed è qui che le linee tracciate dal Rapporto Draghi finiscono per scontrarsi, in un contesto intergovernativo, con la consueta opposizione della Germania e dei Paesi frugali al debito comune, con la competizione tra Stati che non accenna a diminuire e con il potere di veto di governi sovranisti. I limiti legati alla mancanza di volontà di gran parte dei governi europei nel progredire verso un’unione fiscale riemergono con forza nel concepire e finanziare politiche industriali comuni. Dunque, il rischio che il Rapporto Draghi, al netto dei suoi limiti, rimanga un ’libro dei sogni’ è molto elevato. Il tema è che oggi la Ue non può permettersi di perdere un altro decennio. La dipendenza dalle importazioni di tecnologie e materie prime critiche è sempre più forte. Una nuova crisi energetica spingerebbe l’Europa in recessione e farebbe esplodere le diseguaglianze. In questo contesto, per quanto politicamente ardue da realizzare, le parti migliori del Rapporto Draghi meritano di essere prese sul serio.

Proprio del futuro dell’Europa e del ruolo della politica industriale si è discusso, la scorsa settimana, nel convegno di due giorni ’European Industrial Policy in the New Global Context’, co-organizzato da Sapienza e Luiss e a cui hanno preso parte, tra gli altri, Ron Boschma, Romano Prodi e Rehinilde Veugelers. Obiettivo del dibattito è stato, infatti, quello di individuare quali politiche industriali possano portare l’Europa su un sentiero di crescita sostenibile e quali, invece, le contraddizioni da sanare per non gettare via quanto costruito dalla fine della II guerra mondiale ad oggi.

*Direttrice di Leap

Co-autori: Donato Di Carlo (Luhnip),

Dario Guarascio (Sapienza), Maria Savona (Leap)

 

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