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La rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea potrebbe segnare una nuova fase nella politica industriale dell’UE, qualora il nuovo Clean Industrial Deal – annunciato lo scorso 18 luglio – si riveli non come una semplice prosecuzione normativa del Green Deal, ma come un’accelerazione decisiva verso l’esecuzione concreta delle strategie di decarbonizzazione e di innovazione tecnologica. Il Piano, difatti, mira a tradurre le politiche esistenti in attuazioni pratiche, transitando dalla mera regolamentazione al compimento di una transizione verde che proceda in parallelo con la competitività dell’industria globale.

Un piano ambizioso

Le modalità, gli strumenti e le misure attraverso cui l’UE intende avviare il nuovo Clean Industrial Deal verranno delineate solo in conclusione dei primi cento giorni del nuovo mandato di von der Leyen, quando il Piano sarà presentato ufficialmente. Già nota è, tuttavia, la sfida principale: semplificare un quadro normativo molto complesso, facilitando gli investimenti “nelle tecnologie pulite e strategiche e nelle industrie ad alta intensità energetica”, senza compromettere gli standard ambientali. Se si considera che all’obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 si è aggiunta la più ambiziosa meta del 90% entro il 2040 – impegno di cui si proporrà l’inserimento formale nella Legge europea sul clima – il quadro si complica ulteriormente.

Va rilevato che, sebbene la perdita di accesso al gas russo a basso costo abbia costretto numerose industrie dell’UE a ridurre la produzione, la criticità ha comportato una spinta significativa al settore delle energie alternative, come mostrano i dati del primo semestre del 2024, con il 50% della produzione elettrica derivata da fonti rinnovabili. Diventa ora necessario stabilizzare questa tendenza, garantendo – come si propone di attuare con il Clean Industrial Deal – la stabilità dei prezzi, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico e una sostenibilità ambientale, sociale, economica a lungo termine; assicurare, insomma, che il passaggio alle energie rinnovabili e alle nuove tecnologie avvenga consolidando i progressi fatti finora, senza compromettere la competitività e gli equilibri del sistema energetico europeo.

Uno dei principali strumenti previsti dal Clean Industrial Deal, annunciati da von der Leyen, è il Competitiveness Fund, concepito per fornire risorse finanziarie a settori strategici dell’energia rinnovabile, dell’idrogeno verde, dell’acciaio verde e delle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Si tratta, ça va sans dire, di una strategia volta anche a rafforzare la posizione europea nella transizione verde e rispondere alle ambiziose politiche adottate da altre potenze economiche – come l’Inflation Reduction Act con cui gli Stati Uniti, nel 2022, hanno stanziato decine di miliardi di dollari in crediti di imposta, prestiti e sovvenzioni anche per il settore green.

Non si può tuttavia negare che il bilanciamento tra incentivi, rigore fiscale e competitività potrebbe risultare molto più complesso per l’UE. Occorrerà infatti evitare che il sostegno finanziario crei distorsioni di mercato e garantire un’equa distribuzione dei fondi tra gli Stati membri e i diversi settori coinvolti, assicurando il rispetto delle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) per sostenere l’industria europea senza compromettere il Mercato unico e i principi di concorrenza.

A destare altrettanto riserbo sono l’introduzione – fortemente sostenuta da von der Leyen – di misure per accelerare la pianificazione, le gare di appalto e l’avvio dei lavori per progetti legati alla transizione e l’istituzione dei one-stop shops in ogni Stato membro dell’UE per facilitare i sistemi di autorizzazione, consentendo alle imprese di rivolgersi a un solo ente per tutto il processo, riducendo tempi di attesa e burocrazia. Ciò potrebbe tuttavia comportare il rischio di compromettere gli standard di controllo e sicurezza, privilegiando lo svolgimento fluido dell’iter autorizzativo a discapito del mantenimento di rigorose valutazioni d’impatto ambientale e di tutela della salute pubblica. La velocità – pur assolutamente necessaria per la buona riuscita del Clean Industrial Deal – non deve né può tradursi, dunque, in un abbassamento degli standard, poiché la credibilità e l’efficacia della transizione verde dipendono dalla capacità dell’UE di coniugarla in un’ottica di sostenibilità ambientale.

Il costo dell’autonomia strategica

A questa già complessa equazione si aggiunge la questione dell’autonomia strategica. Come insegnano le conseguenze della recente esperienza con il gas russo, l’Europa deve eludere la dipendenza da Paesi terzi per l’importazione di materie prime e tecnologie essenziali alla transizione verde; ciononostante, oggi l’Unione si trova ancora una volta in un’analoga situazione, dipendendo in gran parte dalla Cina per risorse e componenti essenziali green

Come evidenziato nel recente rapporto di Mario Draghi, The future of European competitiveness, si tratta di una significativa vulnerabilità: per raggiungere gli obiettivi climatici e mantenere la competitività globale è fondamentale sviluppare una catena di approvvigionamento interna all’UE; una sovranità strategica, appunto, che renda l’Unione europea meno esposta alle fluttuazioni dei mercati globali, alle tensioni geopolitiche e alle relative ricadute economico-sociali. Non si tratta di isolamento né di protezionismo ma, piuttosto, di capacità di azione indipendente e autorevole all’interno del mercato globale. Parte di questa strategia comprende dunque gli incentivi di mercato (destinati sia alle imprese che producono localmente materiali sostenibili sia a quelle che riducono le loro emissioni di carbonio) finalizzati a promuovere l’utilizzo di componenti e materiali prodotti in Europa e a costruire filiere di approvvigionamento autonome da fornitori esterni. Per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030 e del 2040, l’Europa deve infatti esercitare un controllo sull’intera catena di valore delle energie pulite, dall’estrazione delle materie prime alla produzione, dalla distribuzione allo smaltimento.

Anche in tal caso, il processo dovrà conformarsi alle norme WTO e agli accordi commerciali preesistenti, poiché i finanziamenti che favoriscano eccessivamente le imprese locali potrebbero innescare controversie con i Paesi esportatori di prodotti simili verso l’UE. Allo stesso modo, sarà necessario evitare qualsivoglia distorsione della concorrenza interna all’Unione: gli incentivi dovranno essere armonizzati a livello europeo, per evitare squilibri nel Mercato unico, e progettati in modo da sostenere la crescita e l’innovazione senza introdurre distorsioni nel commercio a livello internazionale. 

Come si legge nel Rapporto di Draghi, l’UE dovrebbe mobilitare 450 miliardi di euro all’anno per finanziare investimenti nei settori strategici della transizione e così poter competere davvero con le grandi economie – tra tutte, Stati Uniti e Cina. A tal fine, per concentrare le risorse necessarie su scala europea, consentire progetti di investimento condivisi che non sovraccarichino i bilanci nazionali dei singoli Stati membri, contribuire all’integrazione di capital markets e favorire una crescita sostenibile e competitiva, Draghi ha proposto l’emissione di strumenti di debito comuni, sulla base dei modelli di Next Generation EU.

La proposta sembra aver provocato scetticismo in alcuni Stati membri, rivelando divergenze sul metodo di finanziamento e sull’allocazione delle risorse; i Paesi tradizionalmente più prudenti – come la Germania – temono che la misura possa comportare un incremento dell’indebitamento pubblico e una conseguente perdita di controllo delle proprie politiche fiscali. Simile scetticismo si è destato anche riguardo all’eventuale modalità di distribuzione delle risorse e all’assenza di una garanzia su una ripartizione equa dei fondi tra gli Stati membri.

L’urgenza di un cambio di rotta

Senza dubbio, un debito comune europeo costituirebbe un passo significativo verso una maggiore integrazione economica e politica tra gli Stati membri dell’Unione, frequentemente auspicata ed evocata in altri contesti di emergenza – passati (ad esempio, la pandemia) o attuali (ad esempio, la crisi migratoria). La verità è che anche oggi ci troviamo inequivocabilmente di fronte a un’emergenza che non può in alcun modo essere ignorata. Sebbene il Clean Industrial Deal tenda a rinsaldare anche la competitività globale dell’Unione europea, il suo fondamento corrisponde alla improrogabile necessità di un cambio di rotta in direzione di una sostenibilità multidimensionale.

Come ha sottolineato la stessa von der Leyen, non si tratta solo di una strategia di competitività e crescita: il Clean Industrial Deal è forse innanzitutto una questione di “giustizia intergenerazionale. D’altronde, il Rapporto Brundtland (1987) poggia proprio su tale assioma: lo sviluppo sostenibile è quello che soddisfa i “bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Garantire l’esistenza di un tale futuro implica non solo un impegno per l’ambiente e per il clima – condizione necessaria e indiscutibilmente imprescindibile – ma anche una responsabilità per la società e l’economia. In questa ottica, se gestito secondo una strategia cauta e condivisa, il nuovo Clean Industrial Deal ha il potenziale di promuovere un modello di crescita in armonia con quella prima definizione di sostenibilità redatta nel 1987.

 

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