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Il continuo martellare della maggioranza sulla volontà di mettere qualche soldo in più in tasca agli italiani ha una sua ragione d’essere. I consumi delle famiglia sono bloccati dalle spese obbligate e senza la spinta della domanda interna, l’export non basta a sostenere l’industria nazionale. Sono tutti anelli di una catena che parte dagli acquisti dei cittadini e arriva fino al percorso di aggiustamento dei conti pubblici richiesto dall’Unione europea all’Italia. Se l’industria non macina a sufficienza, la crescita del pil resta trainata soprattutto dal turismo e dall’export, su valori in linea con le previsioni del governo che attende circa 1% a fine anno, ma comunque poco sopra lo zero virgola qualcosa. Poco per la seconda manifattura del Continente e la terza economia d’Europa, alle prese con una svolta in stile Maldive. Una traiettoria di crescita credibile nel tempo è però uno dei presupposti del percorso che il Paese dovrà intraprendere per ridurre il debito pubblico, prendendo come parametro il limite massimo entro cui la spesa pubblica potrà aumentare per rispettare gli impegni con l’Europa.

Gli ultimi dati Istat sul fatturato industriale segnalano quindi un problema. La lieve ripresa dei valori a giugno (0,1% sul mese precedente) è dovuta di fatto al mercato estero, che guadagna un +2,2%, mentre quello interno è  in calo dell’1%. Il lieve aumento totale non aiuta  a recuperare la perdita nel confronto con un anno fa. Rispetto a giugno 2023 il fatturato segna -3,7%, così come è in calo quello del primo trimestre dell’anno rispetto all’ultima parte del 2023. Dati “preoccupanti”, commenta Massimiliano Dona, presidente dell’unione nazionale consumatori, “Il confronto con lo scorso anno, poi, è ancora più allarmante, con il mercato interno che precipita del 6%”.

Male anche i servizi. Rispetto a maggio, giugno è in negativo, sia per il commercio (anche all’ingrosso) sia per la riparazione di automobili e altro. I numeri dell’Istituto nazionale di statistica si spiegano anche con l’analisi svolta dall’ufficio studi di Confcommercio sui bilanci delle  famiglie. Quasi il 42% delle spese è di fatto bloccato da necessità obbligate. Su 21.800 euro di consumi pro capite l’anno quasi un quarto, ossia 4.830 euro, è assorbito dalla casa e di questi 1.721 euro se ne vanno in energia, gas e carburanti. “Ad amplificare la dimensione e, quindi, il peso delle spese obbligate è anche la dinamica dei prezzi che mostra una notevole difformità rispetto a quella degli altri beni e servizi. Tra il 1995 e il 2024, infatti, l’indice di prezzo degli obbligati (+122,7%) è cresciuto più del doppio rispetto a quello dei beni commercializzabili (+55,6%), dinamica influenzata anche da un deficit di concorrenza tra le imprese fornitrici di beni e servizi obbligati”, spiega l’associazione. “Le spese obbligate, soprattutto quelle legate all’abitazione, penalizzano sempre di più i bilanci delle famiglie e di conseguenza riducono i consumi. Consumi che sono la principale componente della domanda interna. Per sostenerli occorre confermare l’accorpamento delle aliquote Irpef e ridurre progressivamente, e in modo strutturale, il carico fiscale”, dice il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli.

Al momento il rinnovo del taglio del cuneo fiscale e della riduzione a tre delle aliquote Irpef sono le due priorità. Il primo, sommato a quello voluto già dal governo Draghi, permette di ritrovarsi in busta paga circa 100 euro in più. Per finanziarlo servono circa 10 miliardi. Lo scorso anno il governo ha fatto ricorso al deficit. Con una procedura per disavanzo eccessivo sulle spalle e con i limiti del nuovo Patto di Stabilità e Crescita il maggiore indebitamento non è più un’ipotesi. Anzi non converrebbe neppure. Come notava l’Istat in audizione ad aprile, venisse finanziato a debito avrebbe un effetto espansivo sulla domanda interna trainata dai consumi delle famiglie pari a circa 0,5 punti percentuali. Un effetto che verrebbe assorbito in buona parte dalle importazioni di maggiori prodotti dall’estero, con un effetto positivo sul Pil pari a 0,2% sul Pil. Il gioco quindi non varrebbe  la candela. Se invece il governo dovesse optare per il finanziamento della decontribuzione con tagli di spesa si avrebbe invece una riduzione della crescita del Pil pari a un decimo di punto rispetto allo scenario base. Sulle tasse l’ultima idea è di allargare il secondo scaglione da 50mila a 60mila euro di reddito riducendo l’aliquota, oggi al 35%, di uno o due punti. Per farlo servono tuttavia circa 4 miliardi e le simulazioni svolte nei mesi precedenti danno benefici non giganteschi tra i 70 e 220 euro l’anno.

 

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