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Da quando il capitalismo ha fatto della creatività la forma di produzione più avanzata, non è più possibile comprendere il nostro mondo senza un’adeguata comprensione della funzione svolta dalla «classe creativa», come l’urbanista americano Richard Florida l’ha per primo battezzata. Parliamo di una classe che, ancorché inconsapevole di sé, si mostra capace di ridefinire con le sue innovazioni tecniche, logiche ed espressive i nostri stili di vita, la nostra relazione estetica al mondo, i nostri modi di abitare, comunicare, pensare, immaginare. Ne fanno parte in prima istanza i professionisti delle arti applicate: designers, architetti, programmatori, ingegneri, operatori nel campo della moda, dell’editoria, del divertimento, creatori di start up di ogni tipo.

Figure a volte distanti tra loro, ma accomunate da una cultura liberal, cosmopolita, tollerante, progressista e appartenenti a un unico indefinito ecosistema che con buona approssimazione chiamiamo «industria creativa». Rilette a vent’anni di distanza, le tesi esposte da Florida in The Rise of the Creative Class: And How It’s Transforming Work, Leisure, Community and Everyday Life (2002) mantengono la loro vitalità, anzi le grandi trasformazioni sociali recentemente introdotte dalle tecnologie digitali, rendendo possibile un aumento esponenziale della produzione e della circolazione delle conoscenze, hanno persino potenziato la funzione dei creativi su scala globale. Ma sul tema restava ancora un grande lavoro da fare. Innanzitutto, che tipo di sapere definiamo creativo e che legame intrattiene tale sapere col Moderno? E poi: per quali vie la classe creativa è diventata il motore dell’economia globale?

Sono queste le domande che Paolo Perulli affronta nel suo ultimo, coraggioso saggio, Anime creative. Da Prometeo a Steve Jobs. Data la natura altamente teorica di entrambe le questioni, l’autore opera sul confine tra sociologia e filosofia, adottando un taglio genealogico. Il carattere del moderno creativo, instancabile innovatore e creatore di mondi possibili, è stato presagito da Goethe e da Nietzsche. Ma è soprattutto l’economista austriaco Schumpeter a forgiare la figura del moderno innovatore, pienamente inserito nel mercato e funzionale a quel processo di costante rivoluzione che fa del capitalismo una macchina di distruzione creativa, un modo di produzione anarchico, privo di scopi, interamente votato a soddisfare la Legge economica che, in regime di competizione, collega la sopravvivenza al rinnovamento.

Dentro questa ricca cornice teorica Perulli fa emergere la questione più centrale del libro: come è avvenuto che i creativi siano diventati il motore della società capitalista avanzata? Per rispondere a questa fondamentale domanda, che investe la radice stessa della società contemporanea, l’autore propone una tesi forte e del tutto originale: la classe creativa sorge negli Trenta per effetto della massiccia emigrazione in America di artisti, designer, architetti e scienziati europei. Un vero esodo che, seguendo un percorso inaugurato nel 1917 dal precursore per eccellenza, Marcel Duchamp, porterà un’intera generazione creativa ad attraversare l’oceano e a insediarsi nel nuovo mondo. Siamo di fronte a un punto di svolta decisivo: dall’incontro tra i saperi europei da un lato e la cultura imprenditoriale americana, sostenuta dall’industria più evoluta del pianeta, nasce infatti quella classe di intellettuali creativi destinata a rivoluzionare il capitalismo stesso, e a segnare il primato tecnologico americano nel campo dei consumi, delle telecomunicazioni, dello spettacolo, dell’industria bellica. Siamo abituati a pensare immediatamente all’emigrazione di quegli scienziati e fisici europei (da Einstein a Fermi) che daranno un solido contributo alla risoluzione della seconda guerra mondiale. Ma il libro ci mostra tutta l’impressionante ampiezza del fenomeno, che va dalla filosofia alla musica, dall’economia alla psicologia, dalle arti visive all’architettura (basti qui pensare ai nomi di Gropius, Mies van der Rohe, Giedion, Moholy-Nagy). La straordinaria capacità innovativa delle avanguardie europee è stata letteralmente assorbita dal sistema produttivo americano, e da tale fusione è sorto quel tipico mix tra merce (standardizzazione) e creatività (innovazione) destinata a dominare i mercati per quasi un secolo: tanto è durato il capitalismo creativo globale nel quale ancora oggi viviamo. Il soggetto creativo possiede una propria struttura antropologica, che, come Perulli suggerisce, reca dentro di sé il segno dell’esilio e dello sradicamento: «il profilo del tipo creativo sta a metà strada tra l’eterno outsider e il nuovo aggressivo establishment, metropolitano e cosmopolita. Arrivare in America ha rappresentato per l’intelligenza europea proprio questo percorso. Essi, apolidi anche quando acquisito la nuova nazionalità, hanno portato dal­l’Europa il pensiero che in America si è tradotto in azione» (p. 46).

Apolide per essenza, la classe creativa è paradossalmente dipendente dalla metropoli liberale: si nutre della libertà della vita metropolitana, della contaminazione tra culture e saperi diversi, del continuo sconfinamento dei limiti disciplinari. Il rapporto tra il creativo e la metropoli è così stretto che è persino difficile stabilire se siano due cose diverse. Come Perulli ci mostra attraverso le capitali del Moderno (Parigi, New York, San Francisco), le metropoli non solo catalizzano i creativi, ma li creano e li moltiplicano offrendo loro l’habitat di cui necessitano.

Il libro, come si sarà capito, ricostruisce il successo del talento creativo nella modernità globalizzata, ma non è affatto insensibile alle criticità che l’affermazione della classe creativa reca con sé e, anzi, ci lascia in consegna alcune inquietudini. Per esempio: i creativi sembrano al tempo stesso complici e vittime della specifica forma di economia che attraverso di loro si è affermata. Complici di un capitalismo acefalo, privo di ogni fine e smisuratamente competitivo ne divengono vittime in quanto sottopagati, precarizzati, e sempre più separati dai mezzi di produzione che trasformano il loro talento in valore. Inoltre, i creativi sono paradossalmente le figure professionali più esposte sia agli effetti distruttivi delle loro innovazioni (si pensi per esempio ai possibili effetti sul lavoro creativo dell’AI) sia all’inflazione della creatività resa possibile dalle nuove tecnologie e da una vera e propria «crisi di sovrapproduzione». Ma oltre a ciò, sotto la spinta omologante dei mercati globali, le stesse città creative rischiano secondo Perulli di perdere la loro vocazione al rischio, alla sperimentazione, alla rottura degli schemi (lo si vede a Milano, ma non solo). Il libro consegna al lettore diverse ipotesi circa il futuro della creatività, l’ultima delle quali – in sintonia con le recenti biennali di Venezia – è forse la più suggestiva: a compensare i fattori di crisi della classe creativa occidentale e a rivitalizzare lo spirito creativo del Moderno potranno forse essere le giovani metropoli del sud-globale?

Paolo Perulli,
Anime creative. Da Prometeo a Steve Jobs
il Mulino, Bologna 2024

 

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