TRENTO. “Con questa sessione estiva sul Monte Grappa, festeggiamo la cattura del 30esimo lupo, tra più progetti di ricerca svolti in varie regioni dal nostro gruppo di ricerca del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Sassari”.
Sono parole di Duccio Berzi, tecnico faunistico, uno dei maggiori esperti di lupo a livello nazionale e fino a un paio di anni fa responsabile delle operazioni sul campo del progetto per il monitoraggio del lupo messo in campo in collaborazione con la Regione Veneto.
Oggi quel “filo diretto” con la regione non esiste più, perché i contributi del Veneto al progetto si sono interrotti nel 2022, ma non si è interrotto il lavoro, su molteplici fronti, dei gruppi di ricerca che fanno riferimento al professor Marco Apollonio. Trenta lupi catturati, 5 attualmente monitorati tramite radiocollare. Numeri significativi, dati di qualità progetti al top in Europa per tecnologie ed analisi.
“Per quanto riguarda il territorio delle Alpi – racconta Berzi -, si tratta dell’undicesimo esemplare. All’interno dei vari progetti, i primi lupi catturati sono stati i 10 ibridi in Toscana nel corso del 2015: oggi siamo arrivati a 30 e siamo davvero soddisfatti dell’avanzamento dei nostri studi, della crescita delle nostre conoscenze in materia”.
In quali zone operate, principalmente?
“Attualmente stiamo lavorando in Lazio, Toscana e Veneto, i gruppi di lavoro seguono progetti con finalità di ricerca diverse, ma tutte ci permettono di utilizzare la tecnologia che abbiamo a disposizione per raccogliere più dati. In questo modo abbiamo basi più solide per comprendere meglio l’ecologia, elaborare tesi, identificare tendenze e dare il nostro contributo agli studi specifici su questi animali in relazione all’ambiente, all’uomo, alle interazioni con altre specie”.
Al momento sono 5 i lupi “radiocollarati”.
“Sì. Il radiocollare è uno strumento tecnologico fondamentale, perché ci fornisce costantemente dati di grande qualità sul comportamento spaziale dei lupi. Le aree che frequentano, come si spostano: dati che però non ci limitiamo ad incamerare con obiettivi descrittivi, ma con finalità concrete di prevenzione. Negli anni siamo riusciti a sviluppare sistemi che ci permettono per esempio di intervenire se attraverso gli strumenti di ricezione dei segnali ci rendiamo conto che l’animale si sta avvicinando ad una stalla”.
Insomma, strumenti di controllo ma anche di prevenzione.
“Questo tipo di azione pro-attiva è fondamentale, dà una dimensione tangibile e significativa ai nostri tanti progetti. Abbiamo un approccio tecnologico e una capacità di ricezione e lettura dei dati in tempo reale che nel contesto europeo rappresenta una vera e propria eccellenza”.
Domanda da non addetto ai lavori: come vengono catturati i lupi per poi mettere loro il radiocollare?
“Catturare un lupo è un’operazione estremamente complessa e faticosa. Si utilizzano delle trappole atraumatiche, cioè che non provocano dolore all’animale: vengono posizionate nel luogo degli avvistamenti dove si ritiene che ci siano degli esemplari; il sistema è progettato per avvolgere un laccio intorno alla zampa del lupo. Scattando, la trappola fa staccare un magnete e questo distacco ci fa arrivare automaticamente un sms. A quel punto molto rapidamente si mette in moto una squadra composta da più persone tra staff, veterinari e ricercatori e si valuta il da farsi. Non sempre alla cattura segue il radiocollare, tanto per capirsi”.
Questo sistema potrebbe essere replicato con altri grandi carnivori, per esempio gli orsi, con dinamiche simili di controllo e prevenzione?
“Contrariamente a quanto si potrebbe pensare istintivamente, è più semplice catturare un orso, che un lupo. Però catturare un lupo, o un orso, o anche mettergli un radiocollare, non può essere un ‘esercizio di stile’ fine a sé stesso. Vanno gestiti i dati, serve un’organizzazione che possa raccoglierli, analizzarli, tradurli in risposte concrete. Anche sull’orso negli anni, soprattutto all’estero, si è usata tantissimo la telemetria, cioè l’analisi dei dati di movimento dei radiocollari”.
Quali “scoperte” significative sono emerse nei vostri anni di studio sui lupi?
“Nessuna clamorosa rivelazione, o titoli sensazionalistici. Però ci ha colpito molto quello che abbiamo osservato sull’utilizzo del territorio dei lupi: si è sempre ipotizzato che i branchi di lupi volessero avere a disposizione grandi territori, invece se hanno cibo a sufficienza e una buona situazione contingente, tutto il territorio si restringe e a volte quegli spazi possono anche diventare molto piccoli. Questo marca una netta differenza con i comportamenti per esempio dei lupi nordamericani. Abbiamo anche documentato un certo dinamismo all’interno dei branchi: ci sono movimenti e cambiamenti all’interno dei branchi, con lupi che vanno in dispersione o finiscono vittime di bracconieri o di altri incidenti. E poi, ma questo ci ha sorpreso relativamente, la grande capacità di adattarsi a vivere in ambienti che a noi sembrerebbero impossibili. Penso a qualche lupo in dispersione che sceglie poi di stare nelle periferie delle città o dei paesi, rimanendo quasi invisibili. I lupi sono una specie con un’adattabilità sorprendente, descritta e gestita finora senza molta visione prospettica e che probabilmente non ha ancora finito di stupirci”.
Molti ricordano la sperimentazione di qualche anno fa con il cane peluche che dava la “scossa” ai lupi (QUI L’ARTICOLO): avete messo in atto altri esperimenti simili?
“Sì. Quello fu un esperimento particolare. Recentemente sul Monte Grappa abbiamo fatto qualcosa di simile, perché abbiamo colpito con un proiettile di gomma un lupo che aveva un comportamento troppo confidente ed era un predatore seriale di ovini: lo abbiamo colpito durante un tentativo di predazione in un allevamento della zona. E l’esperimento ha funzionato, nel senso che poi per l’anno successivo lo abbiamo monitorato e il condizionamento ha fatto cambiare comportamento all’animale. Continueremo a lavorare per progredire sul percorso di conoscenza dei lupi”.
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