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I Cinque Stelle al bivio con due visioni diverse sulla natura del Movimento: il populismo utopistico del fondatore e il populismo scientifico di Giuseppi

Come era naturale che succedesse, siamo ormai allo scontro finale tra il populismo utopistico di Beppe Grillo (l’Elevato) e il populismo scientifico di Giuseppe Conte (il campione della Quasità). Il grillismo duro e puro delle origini – dove convivevano il voto della Rete al posto della democrazia parlamentare, i parlamentari nominati tutti per sorteggio perché «uno vale uno», il «reddito universale incondizionato» e le fulminanti espulsioni inappellabili del Garante – contro il trasformismo spregiudicato del nuovo leader, che dopo aver «abolito la povertà» con il reddito di cittadinanza e svuotato le casse dello Stato con il superbonus del 110 per cento promette un’altra riforma miracolosa, la settimana lavorativa di 32 ore a parità di stipendio, non per fare la rivoluzione ma per raccogliere i voti necessari per il suo ritorno a Palazzo Chigi. 

 

Alla guida di un partito che ormai è indistinguibile dagli altri e vuole sbarazzarsi in fretta delle rigide regole dettate 15 anni fa da un comico che crede ancora di essere il Supremo e non si è accorto che ormai è solo un consulente, pagato con i soldi del finanziamento pubblico, l’ex sterco del diavolo.

Così adesso persino Giuseppe Conte – il miracolato di Volturara Appula – lo tratta come un povero postulante, anzi come un vecchio comiziante nostalgico di «un passato che non ritorna», e gli mette per iscritto che ormai non conta più nulla, e dunque lui non può «accogliere la proposta di discutere preventivamente i temi da sottoporre all’Assemblea Costituente». E improvvisamente sembrano preistoria quei giorni in cui il comico genovese guidava i suoi infervorati seguaci verso la rivoluzione grillina, assicurando che presto avrebbero cacciato i «sepolcri imbiancati» da un Palazzo che i “portavoce” pentastellati avrebbero aperto come una scatoletta di tonno, rimanendo in carica solo per due mandati, rifiutando il finanziamento pubblico e accettando dal Parlamento solo lo stipendio di un impiegato.

 

Poi la rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi, ma nel giro di nove anni il suo Movimento è riuscito a conquistare la maggioranza relativa e pure la guida del governo, affidata a un semisconosciuto avvocato pugliese presentato a Di Maio da un suo ex praticante di studio, Alfonso Buonafede detto Dj Fofò. Quello che è successo dopo lo sappiamo. Certo non ci aspettavamo è che un giorno saremmo arrivati al capovolgimento dei ruoli, con l’avvocato diventato premier – «il vice dei suoi vice» – che tratta come un rompiscatole smemorato il Garante dei Cinquestelle, l’uomo senza il quale lui sarebbe ancora a scrivere citazioni per lo studio Alpa. Invece è successo, come documenta l’ultimo scambio di lettere, «caro Giuseppe», «caro Beppe», che si conclude con un vaffa al fondatore scritto in algido legalese – non hai il diritto di valutare in anticipo i temi dell’assemblea costituente – e ruota intorno a una frase che è una pietra tombale sul grillismo: «Non dobbiamo indugiare in un passato che non ritorna».

 

Adesso nessuno dei due può fare una marcia indietro senza perdere la faccia. Dunque sapremo presto, molto presto, se il Movimento che ha messo sottosopra la politica italiana è pronto a sostituire definitivamente il populismo utopistico dell’Elevato con il populismo scientifico di mister Gratuitamente.

 

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