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Con la sentenza 22 maggio 2024, n. 14294 (testo in calce), la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente in materia di cittadinanza italiana iure sanguinis.

La pronuncia in oggetto assume particolare rilievo non solo per il suo contenuto nomofilattico, ma anche e soprattutto per l’impatto che è destinata ad avere sul fenomeno delle istanze di riconoscimento della cittadinanza c.d. per discendenza da avo italiano. Infatti, come meglio si approfondirà nelle conclusioni del presente contributo, il principio affermato dai giudici di piazza Cavour potrà – con le dovute precisazioni, meglio chiarite in seguito – essere applicato sia alle domande formalizzate per via amministrativa (ovvero presso i Consolati italiani all’estero o presso i comuni, nel caso di residenza in Italia dell’istante), sia alle domande giudiziali incardinate presso i competenti tribunali italiani. Inoltre, il principio in esame ha valore per tutte le discendenze da avo italiano, non ponendo differenze applicative per la casistica della c.d. discendenza per linea materna.

Per meglio comprendere la portata del fenomeno delle istanze di riconoscimento della cittadinanza italiana per discendenza, basti citare i dati recentemente pubblicati da A.N.U.S.C.A. (Associazione nazionale Ufficiali di stato civile e d’Anagrafe) e I.S.T.A.T., che, sebbene – fortemente – parziali (poiché non tutti i comuni italiani sono stati invitati alla partecipazione statistica, non tutti gli enti locali partecipanti hanno fornito i dati i loro possesso e perché il dato de quo è limitato alle sole pratiche espletate) delineano per l’anno 2023 un totale di 4.234 cittadinanze riconosciute.

A ciò si aggiungano le dichiarazioni rese lo scorso gennaio dal Presidente della Corte di Appello di Venezia, dott. Carlo Citterio, secondo le quali “l’arretrato che riguarda i ricorsi per il riconoscimento della cittadinanza […] un numero da solo superiore a tutte le altre cause che sono state incamerate dal tribunale di Venezia”.

Famiglia e diritto, Direzione scientifica: Sesta Michele, Ed. IPSOA, Periodico. Mensile di dottrina e giurisprudenza. Profili sostanziali, processuali, successori e tributari del diritto di famiglia.
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1. Il fatto

La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte di Cassazione trae origine da un’istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis formalizzata presso il comune competente da una cittadina brasiliana.

Tale ente locale dichiarava improcedibile la domanda in ragione di una presunta interruzione della linea di discendenza. In particolare, il comune rilevava la mancata allegazione del certificato di nascita con indicazione di paternità e maternità del figlio dell’avo italiano emigrato, sebbene congiuntamente all’istanza fosse stato prodotto il certificato di matrimonio dell’avo, nel quale quest’ultimo e sua moglie espressamente riconoscevano il figlio comune (nato, dunque, al di fuori del matrimonio).

Avverso tale provvedimento amministrativo, l’interessata aveva proposto ricorso presso il Tribunale ordinario di Venezia.

Tuttavia, anche la corte di merito rigettava la domanda. Per tale ragione, veniva promossa l’impugnazione nella Corte di Appello veneta, la quale a sua volta respingeva l’istanza. Più precisamente, la motivazione dei giudici di seconde cure veniva così articolata: 1) in applicazione del principio di iura novit curia al caso di specie era stata applicato l’art. 1603 del codice civile brasiliano, a mente del quale il rapporto di filiazione poteva essere provato in via esclusiva dal certificato di nascita registrato nel pertinente registro civile; 2) per tale ragione, il riconoscimento successivo, effettuato dai genitori nell’atto di matrimonio, risultava insufficiente ai fini probatori.

Avverso tale sentenza veniva dunque proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti tre motivi: 1) violazione o falsa applicazione degli artt. 33 e ss., L. 218/95, in virtù dei quali la controversia riguardante l’attribuzione dello stato di figlio, in caso di certificato di nascita viziato o mancante, avrebbe dovuto essere risolta con l’applicazione della legge italiana e non di quella brasiliana; 2) omessa/apparente motivazione del capo della sentenza ove si afferma che il riconoscimento successivo alla nascita, effettuato nell’atto di matrimonio, sarebbe insufficiente ai fini dell’attribuzione dello stato di figlio legittimo; 3) violazione o falsa applicazione degli articoli 236 e 237 c.c. e 170 e ss. del Codice civile del 1865, in forza dei quali la filiazione al di fuori del matrimonio può essere provata con ogni mezzo, essendo sufficiente il possesso continuo dello stato di figlio.

La Corte di legittimità, prima di addentrarsi nei profili giuridici attinenti alla vicenda, compie una breve sintesi dei principi enunciati con le sentenze gemelle rese dalle Sezioni Unite nel 2022 (nn. 25317 e 25318).

Successivamente, accoglie tutti i motivi di ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando il giudizio alla Corte di Appello.

2. Il diritto

I) In primo luogo, la Suprema Corte di Cassazione si occupa di determinare il diritto applicabile al caso di specie, dovendosi optare tra la legge brasiliana, adoperata dalla Corte di Appello in ragione della nazionalità della ricorrente, e la legge italiana che, secondo quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso per cassazione, avrebbe dovuto essere applicata in ragione degli artt. 33 e 35, L. 218 del 1995.

I giudici di piazza Cavour svolgono il proprio ragionamento partendo da dati oggettivi e certi. Infatti, la determinazione dello stato di figlio non riguarda la ricorrente, bensì un suo ascendente, i cui genitori erano certamente cittadini italiani. Ciò chiarito, mediante l’applicazione dell’art. 33, L. 218 del 1995, viene sancita l’applicabilità del diritto italiano. In particolare, l’articolo menzionato offre due possibili criteri di collegamento: 1) la legge nazionale del figlio, che in questa casistica non avrebbe permesso di risolvere il conflitto applicativo, considerando lo stesso aveva acquisito la cittadinanza brasiliana in virtù del locale ius soli e quella italiana sostanziale per nascita da padre italiano; 2) se più favorevole, la legge nazionale di uno dei due genitori;

La Corte di Cassazione, ritenendo più favorevole la legge italiana in materia di riconoscimento dello stato di figlio, ne sancisce la conseguente applicazione.

II) Sulla scorta di tale statuizione si assiste al crollo dell’intero ragionamento svolto dalla Corte di Appello di Venezia. Infatti, l’applicazione dell’art. 237, c.c., la cui formulazione letterale è così strutturata “Il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere. In ogni caso devono concorrere i seguenti fatti: che il genitore abbia trattato la persona come figlio ed abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e al collocamento di essa; che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia” permette di sopperire alla mancanza e/o vizio dell’atto di nascita o, in esso, delle indicazioni di paternità e maternità.

Tale norma, come è noto, potrà essere applicata solo in via sussidiaria rispetto all’art. 236, comma primo, c.c., a mente del quale la filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile e, stando al comma secondo, solo in mancanza dell’atto di nascita potrà farsi ricorso al possesso continuo dello stato di figlio.

Tornando quindi alla fattispecie in esame, la Suprema Corte di Cassazione ritiene che il riconoscimento postumo, effettuato nell’atto di matrimonio, sia di per sé fondante il possesso continuo dello stato di figlio e idoneo a comprovare la paternità e la conseguente trasmissione della cittadinanza italiana.

3. Conclusioni

Come già anticipato, la sentenza n. 14294/2024 assume rilievo in tutti i giudizi in materia di cittadinanza iure sanguinis. Si tratta, infatti, di un notevole discostamento dalla circolare K.28.1 emanata dal Ministero dell’Interno il giorno 8 aprile 1991, che, in virtù di prassi consolidata, ancora oggi fonda parte della disciplina del riconoscimento della cittadinanza per discendenza, sia esso in via amministrativa o in via giudiziaria.

In particolare, mediante l’indirizzo giurisprudenziale in analisi, sarà possibile derogare – parzialmente – alla serie di documenti che devono corredare le istanze di cittadinanza iure sanguinis, la cui elencazione è fornita dal Viminale nella circolare menzionata, alla sez. B.

Tuttavia, è opportuno segnalare che la facoltà derogatoria ammessa dalla Suprema Corte di Cassazione è in realtà – già da tempo – sancita dal Codice civile. Infatti, a mente dell’art. 452, c.c.se non si sono tenuti i registri o sono andati distrutti o smarriti o se, per qualunque altra causa, manca in tutto o in parte la registrazione dell’atto, la prova della nascita o della morte può essere data con ogni mezzo.

A ciò si aggiunga che anche lo stato di coniuge, per i soli casi di distruzione o di smarrimento dei registri dello stato civile, potrà essere provato ex art. 452,c.c., in forza del rinvio operato dall’art. 132, c.c.

Ciononostante, tale disciplina e conseguente indirizzo giurisprudenziale andranno comunque controbilanciati con due significativi limiti:

1) applicabilità ai soli cittadini italiani: come è noto, il Codice civile potrà trovare applicazione solo ove il diritto applicabile risulti essere quello italiano. Invero, anche nella sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione ha richiamato i criteri di collegamento di cui all’art. 33 della L. 218 del 1995 per legittimare la soluzione nomofilattica fondata sugli artt. 236 e 237, c.c. Ciò, nell’ambito del riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, per discendenze italiane avutesi in Paesi esteri in cui viga il principio dello ius soli – e a condizione che lo status civitatis italiano sia rimasto unicamente sostanziale, per assenza di denuncia di nascita all’estero presso il competente Consolato italiano – si traduce in un’applicabilità della sentenza n. 14294/2024 e dell’art. 452, c.c., limitata al solo avo italiano e ai suoi figli.

2) ostilità delle Amministrazioni preposte: anche in merito a questo “limite”, richiamando la sentenza in commento, si comprende come sia i comuni sia i Consolati italiani all’estero serbino ostilità al riconoscimento della cittadinanza in assenza della documentazione indicata dalla circolare K.28.1. D’altronde tale fonte ministeriale vincola entrambe le Amministrazioni citate, che sono sprovviste di un potere discrezionale di disapplicazione. Inoltre, occorre segnalare anche il dilagante fenomeno di falsificazione dei certificati di stato civile, che sicuramente contribuisce ad irrigidire la posizione della P.A. Ne consegue che, secondo l’opinione degli scriventi, l’opposizione al riconoscimento della cittadinanza per via amministrativa, fondata sulla sola mancanza di certificati di stato civile, darà luogo ad una nuova mole di procedimenti di impugnazione.

In merito al punto 1), tuttavia, preme evidenziare come anche talune normative estere prevedano la possibilità di provare “con ogni mezzo” la nascita, il rapporto di filiazione e la morte. Un esempio è l’art. 98 del Código Civil y Comercial de la Nación de Argentina, secondo il quale “se non esiste alcun documento pubblico o l’iscrizione è mancante o nulla, la nascita e la morte possono essere provate con altri mezzi di prova”. Inoltre, tale facoltà è riconosciuta anche con riguardo al rapporto di filiazione ai sensi dell’art. 579, ibid., il quale, tuttavia, ha natura procedurale e non sostanziale, essendo così formulato: “nelle azioni di filiazione sono ammessi tutti i tipi di prova, compresa la prova genetica, che può essere decretata d’ufficio o su istanza di parte”. Anche il Codigo Civil Brasilerio prevede norme di egual tenore, quali l’art. 1543, comma 2, in merito alla mancanza dell’atto di matrimonio: “se la mancanza o la perdita dell’iscrizione anagrafica è giustificata, è ammissibile qualsiasi altro tipo di prova”; l’art. 1605 “ in assenza o in difetto dell’atto di nascita, la filiazione può essere provata con qualsiasi mezzo ammesso dalla legge: quando vi sia un inizio di prova scritta, proveniente dai genitori, congiuntamente o separatamente; quando sussistono veementi presunzioni derivanti da fatti già certi”. Tali norme, in sede di giudizio e in concerto con il principio di iura novit curia, permetterebbero così di ottenere i medesimi risultati dell’applicazione della normativa italiana.

In conclusione, secondo il parere degli scriventi, la sentenza in oggetto è destinata a dispiegare un significativo impatto nei giudizi di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis. Non sono infrequenti, infatti, le difficoltà nel reperire – sia all’estero che in Italia – certificati risalenti nel tempo (si pensi che la c.d. emigrazione italiana ha raggiunto cifre imponenti a partire dal 1861, avendo però avuto origine sin dagli albori del 1800). Tuttavia, in ordine alla possibilità di fornire la prova degli stati di filiazione, matrimonio e morte con ogni mezzo, dovrà necessariamente considerarsi: 1) la natura prettamente documentale dei giudizi di riconoscimento, che verrebbero significativamente rallentati dall’introduzione di prove per testi e/o da presunzioni semplici; 2) l’impossibilità fisiologica di far ricorso alla prova testimoniale per gli eventi verificatisi nel XIX° secolo, poiché, si ipotizzi il caso di un matrimonio celebrato nel 1880, il testimone dovrebbe avere più di 144 anni.

Ciononostante, l’esistenza di una extrema ratio con la quale superare la mancanza di uno o più certificati di stato civile, amplierà notevolmente la platea dei potenziali istanti.

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