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Giorgia Meloni lo aveva messo in cima alla lista dei desideri da realizzare prima del voto, perché il decreto legge taglia liste di attesa doveva essere la contromossa alla campagna elettorale di Elly Schlein, che molto ha puntato sulle accuse al governo di sabotaggio al servizio sanitario pubblico. Ma dopo slittamenti e rinvii, andati avanti in parallelo al braccio di ferro tra il Titolare della Salute, Orazio Schillaci, e quello dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il decreto legge, atteso al Consiglio dei ministri di martedì prossimo, salvo sorprese dell’ultima ora sarà declassato al rango di disegno di legge. Passa cioè da provvedimento subito attuativo a proposta destinata a divenire legge alle calende greche, quelle che di solito contraddistinguono i tempi di approvazione parlamentare dei ddl.

Una mossa a sorpresa che cela tre difficoltà. La prima, come al solito, legata al problema delle copertura, perché il costo delle disposizioni contenute nei 25 articoli messi a punto dagli uomini di Schillaci sarebbe stato quasi tutto «a valere sul fondo sanitario nazionale». Che equivale a dire alle regioni: applicate le misure con quello che avete in cassa.

Al ministero dell’Economia sarebbero infatti disposti a mettere sul piatto solo 300 milioni, mentre le misure messe a punto dalla Salute secondo i tecnici del Mef varrebbero almeno un miliardo e mezzo. Questo senza considerare il principio ribadito dalla vecchia bozza di decreto di garantire sempre e comunque la prestazione ai cittadini quando i tempi di attesa superano quelli massimi stabiliti per legge. Questo anche ricorrendo alle prestazioni erogate in regime di libera professione. Una sorta di bonus salta fila che era subito piaciuto a Giorgia Meloni, salvo mandarla ora su tutte le furie, scoperto al photo finish che le coperture non ci sono.

Il secondo punto critico deriva dal primo. Perché è chiaro che varare un Piano taglia liste di attesa, di per se ambizioso, senza indicare un finanziamento adeguato si sarebbe potuto facilmente trasformare in un boomerang, con le opposizioni pronte a contrattaccare, accusando di nuovo il governo di definanziare la sanità.

Terza e non ultima questione, l’annosa freddezza del Colle per l’uso eccessivo dei decreti legge.

Così, salvo cedimenti clamorosi a Via XX settembre, il 4 giugno in Consiglio dei ministri il decreto entrerà nella veste molto più dimessa di un disegno di legge. Quanto debbano rammaricarsi gli assistiti è difficile dirlo, visto che manca la controprova sull’efficacia delle misure che avrebbero dovuto consentire di abbattere le liste di attesa, che oggi fanno aspettare mesi, se non anni, per una visita o un accertamento diagnostico. Ma a dolersene saranno sicuramente medici e privati. I camici bianchi vedono infatti slittare a tempo indeterminato la flat tax al 15% sulle ore di lavoro per prestazioni aggiuntive, oggi tassate al 43%, mentre gli specialisti ambulatoriali dovranno attendere tempi migliori per veder aumentare il loro compenso orario da 60 a 100 euro.

Ma a piangere sono soprattutto i privati convenzionati, visto che dopo i 502 milioni già elargiti dalla manovra per alzare il loro tetto di spesa, il provvedimento “taglia-code” prevedeva ora un altro aumento di un punto percentuale per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026, per un valore totale di ulteriori 369 milioni. «L’ennesimo regalo ai privati», avevano già attaccato le opposizioni. «Un modo per aumentare l’offerta di prestazioni ai cittadini da parte di chi opera comunque per il pubblico», secondo Schillaci. Per ora entrambi senza più oggetto del contendere.

 

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