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Da Il Segno di maggio

Lo avevano promesso e lo hanno fatto: il 23 marzo scorso le associazioni delle famiglie di persone con disabilità, oltre 150 realtà, sono scese in piazza a Milano per un sit-in sotto la sede della Regione, contro i decurtamenti alle risorse per i caregiver che colpiranno almeno 7 mila nuclei familiari. Molti Comuni lombardi hanno dichiarato di non essere in grado di fornire servizi per mancanza di risorse umane e professionali che richiedono formazione e preparazione, come assistenti sociali, educatori, operatori sociosanitari e assistenti alla persona. Regione Lombardia e Ministero del Lavoro e delle politiche sociali hanno quindi deciso di rivedere al ribasso la decurtazione, in vigore comunque dal 1° giugno: dai 250 euro inizialmente previsti, il taglio si è ora ridotto a 65 euro. Le associazioni hanno anche indirizzato una lettera ai ministri Marina Calderone (Lavoro e politiche sociali), Alessandra Locatelli (Disabilità) e Orazio Schillaci (Salute) e per informazione al premier Giorgia Meloni, ribadendo di poter fornire «un valido contributo alla conoscenza della tipologia di servizi sanitari, sociosanitari e sociali necessari» grazie alle «competenze ed esperienze maturate sul campo». Si tratta di persone già provate dalla vita che spesso, proprio per assistere i loro cari, scivolano in una condizione di indigenza. Una situazione evidenziata, dati alla mano, da una recente ricerca sul legame tra disabilità e povertà nelle famiglie italiane: la prima di questo tipo realizzata in Italia, promossa dall’organizzazione umanitaria milanese Cbm insieme alla Fondazione Zancan, che verrà presentata venerdì 24 maggio, alle 10.30, all’Università cattolica di Milano, con le conclusioni dell’Arcivescovo, mons. Mario Delpini (vedi box sotto).

Il campione della ricerca è costituito da 272 persone a cui è stato sottoposto un questionario, di cui 57 coinvolte anche nelle interviste qualitative. Vivono in famiglia, 9 su 10 con cittadinanza italiana, hanno fra 14 e 55 anni, sono in una situazione di disagio socioeconomico: quasi il 90% riconosce di arrivare a fine mese con difficoltà. Dal punto di vista oggettivo: il 62% non è in grado di affrontare una spesa imprevista di 500 euro; 2 su 3 non possono permettersi una settimana di vacanza l’anno; più di 4 su 10 si sono trovati in arretrato con il pagamento delle bollette; 1 su 5 ha avuto difficoltà a comprare il cibo necessario al sostentamento della famiglia; quasi 1 su 3 non ha avuto soldi nell’ultimo anno per spese mediche (visite e medicinali). Le quote si aggravano se la persona vive nel Sud del Paese, i genitori sono giovani, il livello educativo è basso, non fanno parte di associazioni a sostegno della disabilità.

Dal punto di vista dell’istruzione, il 45% è in possesso di licenza media superiore. In riferimento alla disabilità, 9 su 10 hanno ottenuto il riconoscimento della condizione di invalidità civile; il 45% fa parte di un’associazione che dà supporto. Ma vivono in una condizione di isolamento: una famiglia su 6 non riceve alcun supporto dalle istituzioni e una su 4 non può contare su una rete informale fatta di amici, parenti non conviventi o volontari. Basti pensare che oltre il 70% è privo di rete amicale di supporto (materiale e immateriale) e il 55% non partecipa ad associazioni di supporto alla disabilità, quote che aumentano dove si registra un basso livello educativo. L’isolamento deriva infatti anche dalla scarsa conoscenza delle opportunità esistenti e dalla poca consapevolezza dei propri diritti.

Il muro delle istituzioni e lo stigma sociale

Alle reti informali deboli si somma la permanenza del “muro” rappresentato dalle istituzioni, dalle quali le persone vorrebbero maggiore supporto, e quello del contesto socio-ambientale, dov’è ancora radicato lo stigma legato alla disabilità.

Le famiglie arrivano a fatica a fine mese, eppure 9 su 10 aiuti richiesti non sono contributi economici, ma servizi rivolti sia alle persone con disabilità sia ai familiari: riguardano gli ambiti dell’assistenza sociosanitaria (39%) e sociale (37%), aiuti nella mobilità (25%), più opportunità ricreative e di socializzazione (23%). Più del 70% dichiara di percepire già dallo Stato almeno una prestazione monetaria legata alla sua condizione di disabilità, tuttavia gli interventi sociali e sociosanitari sono affidati alle istituzioni territoriali: il 44% ha frequentato un centro diurno nell’ultimo anno; il 21% ha ricevuto, da parte del Comune o di soggetti privati convenzionati, prestazioni di aiuto e assistenza a domicilio; l’11% ha beneficiato di prestazioni sanitarie gratuite a domicilio da parte dell’azienda sanitaria (soprattutto se giovani e con disabilità fisiche). E le stesse famiglie, nonostante le difficoltà del convivere con disabilità e povertà, hanno la capacità di offrire forme di sostegno agli altri: il 34% offre compagnia e conforto morale alla rete informale di riferimento. Inoltre, poco più di una persona su 5 chiede in modo esplicito maggiori opportunità lavorative e formative sia per sé sia per i propri familiari. Il carico di cura è considerato un ostacolo all’occupazione, con pesanti ricadute sul piano economico della famiglia.

«A rischio di povertà o esclusione sociale è il 32,5% delle persone di 16 e più anni con disabilità, contro il 23,8% della popolazione totale», osserva Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Zancan che ha elaborato i dati.

Lo conferma anche Luciano Gualzetti, direttore della Caritas ambrosiana: «Abbiamo notato nella ricerca varie coincidenze con quanto osserviamo come Caritas. Il carico di cura ricade quasi sempre in modo esclusivo sulla famiglia, in particolare sulle donne e sulle madri; quando proprio non ce la fanno più, spesso interviene la rete di fratelli e sorelle. Non solo la persona disabile quindi, ma anche i caregiver e il resto della famiglia hanno minori occasioni ricreative, di socializzazione. Il conseguente senso di isolamento spesso porta a percepire una sensazione di abbandono anche da parte delle istituzioni che arriva alla frustrazione, alla rassegnazione, quando ogni giorno sembra pieno di ostacoli da affrontare». Quindi «arriva da molti la richiesta di servizi personalizzati, su misura, anche per alleviare il carico di lavoro di cura del caregiver: in questo senso va letta la preoccupazione di molte famiglie di fronte al taglio di risorse per i caregiver in Lombardia e una rimodulazione dei servizi offerti».

Far parte di una comunità

A fare la differenza sulla qualità della vita «è nella maggior parte dei casi l’essere parte di una rete informale, di una comunità, come può essere quella creata dalle associazioni di familiari e dalla comunità cristiana, fatta di parrocchie e oratori. Come Caritas ambrosiana in questi ultimi anni, grazie al finanziamento di piccoli progetti locali, stiamo investendo sul lavoro di rete, di collegamento, dedicando un’attenzione particolare alla cura delle relazioni tra realtà, persone, comunità. Lavorando con e nelle parrocchie, costruire ponti e incontri di solidarietà in tutte le sfaccettature diventa una strada fondamentale per non lasciare indietro nessuno». Gualzetti chiarisce e ribadisce che queste famiglie «non sono solo portatrici di bisogni, ma anche di risorse, in grado di produrre attività generative. Quando ci sentiamo parte di una comunità, a cui possiamo dare o restituire qualcosa, ci sentiamo anche meno poveri».

«Le voci delle famiglie ci confermano che il disagio sociale e culturale è più opprimente di quello economico», evidenzia Massimo Maggio, direttore generale di Cbm Italia. «Le indicazioni offerte dalla ricerca sono orientate a creare le condizioni per abbattere i muri che isolano, investire in servizi promotori di umanità, valorizzare la capacità di ogni persona. I servizi umanizzati che vengono richiesti devono entrare nel progetto di vita delle persone, per questo dobbiamo pensarli partendo dal riconoscere le risorse ed evidenziare il valore delle famiglie, per ridurre lo stigma e creare opportunità di inclusione».

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