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110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato: Concelebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo Gian Franco nella parrocchia Cristo Risorto a Porto Torres. – Arcidiocesi di Sassari #finsubito richiedi mutuo fino 100%


Martedì 1° ottobre l’arcivescovo Gian Franco Saba ha presieduto la Concelebrazione eucaristica in occasione della 110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato nella parrocchia Cristo Risorto a Porto Torres. A conclusione della celebrazione si è svolto il rito della benedizione della Croce dei Migranti, donodella Capitaneria di Porto, e collocata nella facciata della chiesa parrocchiale.

Di seguito riportiamo l’omelia pronunciata dall’Arcivescovo.

«Nella Prima lettura abbiamo ascoltato le parole di lamento di Giobbe: una parola di tristezza, di angoscia, di tormento, a motivo dell’esperienza del male sperimentata nella sua vita. Questo tormento è così grande che usa delle espressioni attraverso le quali egli vede come un inizio di morte il giorno della sua nascita, che è invece l’inizio della vita. “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: ‘È stato concepito un maschio!’”. E si pone una domanda: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?” Sono immagini che esprimono molto bene i due momenti più delicati nei quali un bambino poteva morire: durante la gestazione e al momento del parto. Parliamo di una cultura nella quale la scienza medica non era segnata dalla tecnologia. 

Il momento del parto era veramente un momento complesso: per donare un’altra vita si rischiava la propria. Questo è un interrogativo grande, che Giobbe esprime con parole poetiche. Si pone la domanda sul perché. È il perché di ogni persona che si interroga sul proprio cammino, sulla propria vita. Un perché che indubbiamente passa nel cuore e nella mente di tanti nostri fratelli e sorelle costretti a lasciare la loro casa, la loro famiglia, la loro terra per essere generati a una vita nuova. A volte questo accade attraverso vie molteplici. Essi vanno incontro alla morte, ma spesso prima di sperimentare la morte fisica sperimentano un’altra morte, la morte dove la dignità umana è annichilita, una morte dove l’individuo si percepisce di essere senza sostegni, senza supporti, senza riferimenti, di essere in balia solo delle onde, oppure delle sabbie, dei deserti, oppure in balia delle acque infide delle strutture sociali di morte che li accolgono, trasformandoli in merce, trasformando le persone in strumenti di morte.

Vi è spesso una morte psicologica, una morte spirituale, una morte sociale che precede la morte fisica. Questo è il dramma, il dolore che si vive in tante situazioni. Tutto questo interpella ciascuno di noi sulla cultura dell’accoglienza: qual è lo spazio nelle nostre strutture di civiltà per l’inclusione, per la custodia di ogni persona, talvolta anche per la loro giusta regolamentazione? Il fenomeno delle migrazioni manifesta una dimensione di dolore. La storia dei migranti è segnata dal dolore, perché vi è un bisogno di un progetto esistenziale non realizzato, vi è il desiderio di realizzare un’esistenza, di realizzare una vita.

Si può essere migranti in tanti modi. Si è migranti anche all’interno di una stessa regione. Talvolta vi sono fenomeni di spopolamento che sono dettati da ingiustizie sociali, da meccanismi di governo che non sono equi. Penso al processo di migrazione dei nostri giovani, dei nostri ragazzi, soprattutto durante alcune stagioni, particolarmente quelle estive, in cui i processi non sempre sono virtuosi. Ci sono movimenti sociali che nella loro origine hanno una positività, ma poi nel loro sviluppo talvolta offrono quanto di peggio l’egoismo dell’individuo può donare al proprio simile. Vi sono poi fattori di migrazione internazionale, come quello che oggi durante questa celebrazione ricordiamo in modo particolare. Indubbiamente non possiamo non pensare che esso sia anche l’esito di una certa struttura coloniale che ancora, in una forma o in un’altra, detta delle incidenze nella vita pubblica. Vi è poi anche l’esigenza della custodia della legalità dentro questi fenomeni, un fenomeno altresì delicato e complesso, perché implica chi arriva ma anche chi accoglie.

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Desidero sottolineare che ogni persona che noi accogliamo è un figlio di Dio. Questo è il punto fondamentale. Ogni persona che noi accogliamo o non accogliamo è un figlio di Dio. È un nostro fratello, è una nostra sorella che dice: “Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono?”. E si interroga sul senso della sua vita: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre?”. Penso che per tutti noi sia facile comprendere quanto siano laceranti le grida di Giobbe. 

Giobbe che cosa desidera? 

Dice: “Se fossi morto fin dal seno di mia madre, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo”. Questo è il desiderio di ogni uomo. La serenità, la custodia, la casa, avere un luogo di vita, sono degni della vita. E questo è il nostro compito, essere cristiani, credenti, cittadini chiamati a promuovere contesti che donino riposo, pace, spazi di accoglienza.

La tradizione archeologica di Porto Torres, che manifesta alcuni elementi della vita cristiana delle origini, ha messo in evidenza come in questa comunità, tra le varie ministerialità, vi fossero delle persone ricordate per il loro servizio di accoglienza ai pellegrini e a coloro che non avevano dimora. Nella Chiesa antica,da subito si svilupparono delle ministerialità, dei servizi volti all’accoglienza delle persone, all’accoglienza del forestiero. Perché questo avvenne nella Chiesa delle origini? Perché Gesù ripropose l’esigenza fondamentale della vita cristiana: accogliere il proprio fratello. E quindi questa ministerialità dell’accoglienza era strettamente connessa con l’Eucaristia. Come vi è una sola Mensa eucaristica, così vi è una sola casa che accoglie tutti, quindi Eucaristia e accoglienza erano e sono tra loro strettamente congiunte.

Quindi, perché noi questa sera – il Vescovo in modo particolare – celebriamo questa Eucaristia, questa memoria? Perché ci è statoricordato proprio nel Vangelo di Domenica, Gesù ha detto: “ogni volta che avrete dato solo un bicchiere d’acqua a uno dei miei fratelli più piccoli l’avete dato a me”.

Il Signore ci invita dunque a sviluppare ministerialità volte all’accoglienza, servizi all’accoglienza e all’inclusione. Talvolta queste parole diventano di moda, diventano degli slogan. Noi siamo chiamati a farle diventare una cultura, cioè uno stile. La fede cristiana non è fatta di mode temporanee. Certamente i momenti storici portano a sottolineare ora l’uno ora l’altro aspetto, ma vi è un elemento centrale che è l’agape, cioè l’amore pieno, profondo, che rimane sempre attuale. E l’agape ha una dimensione eucaristica ma anche una dimensione comunitaria. Le due dimensioni sono tra loro strettamente congiunte e perciò il salmista ci pone una preghiera nelle labbra: “Giunga fino a te la mia preghiera, Signore. Sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi”.

Vogliamo perciò ricordare e fare nostra la preghiera di tanti bambini, ragazzi, giovani, padri, madri, lavoratori che andando via dalle proprie case dicono, in tante lingue che non sono le nostre lingue: “Giunga fino a te la mia preghiera Signore”. In lingue diverse esprimono bisogni fondamentali che sono anche i nostri bisogni, le nostre domande, i nostri interrogativi. “Tendi l’orecchio alla mia supplica”: è la preghiera di colui che non vede nessun altro se non Dio che lo possa liberare dalle angherie delle situazioni di morte. Le parole di colui che è sfinito dal peso della vita riecheggiano oggi attraverso le parole degli innocenti, sfiniti dalle tragedie della vita che si presentano ora in un modo ora nell’altro.

Di fronte a tutto questo Il Vangelo odierno ci ricorda che il Figlio dell’uomo venuto per servire e dare la propria vita: è un riscatto per l’umanità. Il mistero dell’offerta di Cristo è un mistero universale, è cattolico, ci riguarda tutti. Gesù è venuto per tutti.

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È bello pensare che come invitò un piccolo gruppo di discepoli a salire sulla propria barca dicendo: “Salite con me sulla barca e andiamo ad altra riva”, così siamo chiamati ad essere segno di quel Gesù che dice a chi ha bisogno di attraversare l’altra riva:“Sali sulla barca, andiamo ad un’altra riva”. Preghiamo per quanti si adoperano in modo onesto, in modo autentico per compiere questa azione, questo servizio, per accompagnare all’altra riva. Vi è una barca, la barca della Chiesa, il segno visibile del luogo voluto dal Signore perché continui la sua missione, nella quale siamo chiamati ad invitare tanti discepoli del nostro tempo a salire sulla barca, a consentire a tutti di salire sulla barca. La barca, nella logica del Vangelo, è uno strumento, un mezzo attraverso il quale Gesù trasporta da una riva all’altra, o ripesca chi è andato in mare,come Pietro, perché ritrovi la vita, ritrovi la fede.

Il mistero di Cristo, che illumina la missione della Chiesa, illuminianche i nostri passi per promuovere una cultura dell’ospitalità, una cultura dell’accoglienza, perché i nostri strumenti diventino sempre più luoghi di transizione dal male al bene, da situazioni di disagio a situazioni di crescita, da situazioni di svantaggio a posizioni di sviluppo. Sviluppo e promozione umana – ci ricordò San Paolo VI – vanno assieme e il progresso dei popoli non vi sarà in modo autentico senza uno sviluppo e un progresso della singola persona umana. Possa il cammino dell’umanità, che oggi ci interpella, far riecheggiare nelle nostre vite la Parola di Gesù, il quale prende la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Per che cosa prende questa ferma decisione? Per compiere la sua missione, per donare la vita in riscatto per molti. Gesù salì a Gerusalemme per compiere il suo progetto di amore. Ecco, con fermezza, con quella determinazione di Gesù, tutti noi possiamo, laddove ci troviamo e per quanto possiamo, impegnarci con determinazione per essere strumenti di liberazione, strumenti di vita, strumenti di salvezza per ogni persona che si aggrappa all’uno o all’altro con il suo grido».

Al termine della celebrazione, una croce donata dall’equipaggio della motovedetta CP291 della Guardia Costiera di Porto Torres al rientro da una delle tante missioni svolte nel canale di Sicilia è stata collocata nella facciata della chiesa parrocchiale. Dal 2015 l’equipaggio ha contribuito a portare in salvo 3788 persone. La croce è stata realizzata a Lampedusa, dall’artigiano Francesco Tuccio, impiegando materiale ligneo recuperato dai resti spiaggiati dei barconi usati per i viaggi di speranza verso le coste italiane. Il dono della croce alla comunità ecclesiale di Porto Torres rappresenta un messaggio di solidarietà e vicinanza tra popoli, un simbolo di condivisione della sofferenza patita dai migranti nel tentativo di raggiungere migliori condizioni di vita.

Al termine della celebrazione l’Arcivescovo ha detto: «Lo sguardo della fede ci aiuti sempre ad andare oltre l’indifferenza e sviluppare una cultura dell’accoglienza. Saper abbracciare l’altro, è uno degli aspetti più significativi delle nostre esistenze».



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