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Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945) #finsubito prestito immediato


Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945)

di Clara Silvano

Sommario: 1. La vicenda oggetto del contenzioso. 2. L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali 3. L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione.  4. E la condanna da parte del giudice. 5. Conclusioni.

1.La vicenda oggetto del contenzioso

La sentenza qui in esame presenta spiccati profili di originalità rispetto al tipo di tutela normalmente riconosciuta al soggetto privato nei confronti del silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione e alla conseguente natura da riconoscersi all’azione contro il silenzio esperita ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., ponendosi per entrambi questi aspetti, come si vedrà, in discontinuità rispetto agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti. 

Il caso di specie è originato dal ricorso presentato da due Associazioni – la Clientearth Aisbl e  la Lega Italiana Protezione Uccelli Lipu Odv – avanti al T.a.r. Lazio per la dichiarazione dell’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio sull’istanza-diffida a provvedere presentata in data 15.06.2022 dalle medesime alla Regione Lazio e, per quanto di competenza, all’Ente Monti Cimini – Riserva Naturale regionale del lago di Vico, avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligo di adozione delle opportune misure volte a evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024 e, in subordine, dell’obbligo di avvio della relativa istruttoria.

Tale ricorso si inserisce in un quadro di articolate iniziative, procedimentali e giurisdizionali, portate avanti dalle Associazioni a seguito delle quali è già intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato n. 8897 del 2023, che ha accertato l’obbligo della Regione Lazio di esercitare i propri poteri sostituivi, ai sensi dell’art. 152 del d.lgs. n. 152 del 2006, al fine di assicurare l’avvio delle azioni preventive e correttive per contrastare il fenomeno della proliferazione delle alghe nel lago di Vico, nonché la sentenza del T.a.r. del Lazio n. 1926 del 2023, che ha accertato l’obbligo di provvedere della Regione Lazio in ordine alla designazione di una Zona Vulnerabile ai Nitrati corrispondente all’intero bacino idrografico del lago di Vico, ai sensi della Direttiva 91/676/CEE.

Con sentenza del 3 febbraio 2023 n. 1925, il T.a.r. Lazio rigettava il ricorso in ragione dell’inesistenza di un’inerzia imputabile all’amministrazione, atteso che con la nota di risposta sub. prot. n. 692791 del 13 luglio 2022 la Regione aveva dato conto dell’attività istruttoria e delle valutazioni compiute con specifico riferimento al degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024, escludendone peraltro la eventuale natura soprassessoria.

Avverso tale decisione le ricorrenti hanno proposto appello, evidenziando, in primo luogo, come la nota di riscontro regionale si limitasse ad una elencazione esemplificativa delle attività e valutazioni svolte negli anni per il lago di Vico, senza però dare conto delle misure imposte ex paragrafo 6.2 della Direttiva Habitat, come trasposto dall’art. 4 comma 1, D.P.R. n. 357 del 1997,  né di azioni volte a contrastare il fenomeno di degrado in atto degli habitat 3130 e 3140.

In seconda battuta, le ricorrenti hanno impugnato la sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex artt. 39 c.p.a. e 112 c.p.c., in quanto il T.a.r avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di annullamento della nota regionale, presentata in via subordinata, e di valutare se la stessa avesse o meno preso in esame gli elementi di degrado e le misure obbligatorie di cui si invocava l’adempimento. Secondo le appellanti, infatti, anche lì dove il T.a.r. avesse invece ritenuto di rigettare implicitamente la domanda di annullamento presentata in via subordinata dalle ricorrenti, avrebbe errato perché la nota della Regione non contiene alcun riferimento alle misure ex art. 6.2. della Direttiva Habitat

Prima di analizzare la sentenza del Consiglio di Stato, si ritiene opportuno tracciare i caratteri essenziali dell’azione contro il silenzio della pubblica amministrazione, così come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, per poter cogliere al meglio i profili di novità della pronuncia qui in commento. 

2.L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali

In seguito all’approvazione del d.lgs. 4 luglio 2010, n. 104, l’azione contro il silenzio si trova oggi disciplinata dall’art. 31 c.p.a. e dall’art. 117 c.p.a che ne specifica il rito.

L’art. 31 delimita espressamente l’oggetto del giudizio all’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere violato dall’amministrazione nel caso di specie e alla conseguente condanna a provvedere. Al fine di esperire questa azione, è dunque necessario che sussista un obbligo di provvedere, che l’amministrazione sia rimasta inerte, e che il ricorrente abbia interesse a tale azione.

Nella generalità dei casi, quando il giudice condanna la p.a. a provvedere, non dispone nulla circa l’esito finale del procedimento da concludere

Una pronuncia maggiormente satisfattiva per il ricorrente può essere ottenuta nei casi in cui il giudice può pronunciarsi sulla pretesa dedotta in giudizio, ossia, secondo quanto espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 31, «quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».

Pertanto, il ricorrente potrà modellare il ricorso contro il silenzio sulla base del proprio bisogno di tutela, limitandosi a chiedere l’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere dalla amministrazione, con conseguente condanna, oppure chiedendo al giudice, una volta valutata la fondatezza della propria pretesa, l’emanazione di quello specifico provvedimento dal quale dipende la soddisfazione dell’interesse finale. 

La valutazione in merito alla fondatezza della pretesa del ricorrente va effettuata entro i limiti imposti dall’art. 31, comma 3, c.p.a., la cui interpretazione si rivela, allora, di importanza centrale per comprendere l’attuale ampiezza dell’oggetto del giudizio avverso il silenzio.

 A tal proposito, si riscontra in giurisprudenza un’interpretazione estremamente restrittiva degli spazi riconosciuti al giudice per poter sondare la fondatezza della pretesa del ricorrente, con la tipica cautela che caratterizza il sindacato del nostro giudice amministrativo nei confronti dell’azione della pubblica amministrazione.

In primo luogo, la giurisprudenza, riprendendo peraltro un orientamento interpretativo già esistente ante codicem, ritiene che l’accertamento relativo alla fondatezza della pretesa potrà essere utilmente svolto all’interno del giudizio disciplinato dall’art. 31 c.p.a, unicamente nei casi in cui la fondatezza (o l’infondatezza) sia manifesta e quindi facilmente accertabile anche in un giudizio caratterizzato da un rito accelerato, svolto in camera di consiglio.

Oltre alle ragioni legate al rito, il giudice amministrativo opera un deciso self-restraint del proprio sindacato in merito alla verifica della fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di attività vincolata, sia quando richiedono l’accertamento di fatti semplici sia in presenza di fatti complessi.

I limiti, già noti, del giudice amministrativo rispetto all’accertamento del fatto nel processo sono acuiti nel caso del giudizio contro il silenzio proprio dalla circostanza per cui è estremamente probabile che l’accertamento dei fatti non sia stato proprio compiuto dall’amministrazione nella preposta fase istruttoria, dal momento che quest’ultima è rimasta, per l’appunto, inerte. 

Tale circostanza pone l’ulteriore questione interpretativa volta a definire quali sono gli adempimenti istruttori che il giudice amministrativo ritiene possano essere utilmente e legittimamente eseguiti o completati in sede giudiziaria e quali invece sono qualificati quali “adempimenti istruttori necessari” che possono essere compiuti solo dall’amministrazione. 

Dall’analisi della giurisprudenza si può constatare come per il giudice amministrativo gli adempimenti istruttori che non sono stati svolti dall’amministrazione a causa della sua inerzia, siano in realtà tutti “adempimenti istruttori necessari” che la stessa deve svolgere in prima persona. In altri termini la giurisprudenza non opera alcun reale distinguo tra le ipotesi in cui concretamente si tratti di adempimenti istruttori che, per la loro complessità o per caratteristiche peculiari, debbono essere compiuti solo ed esclusivamente dalla amministrazione, da quelli che possono essere svolti in giudizio, nel pieno rispetto della giurisdizione di legittimità.

Ancora si segnala un’ulteriore tendenza della giurisprudenza amministrativa, opportunatamente segnalata dalla dottrina, in virtù della quale alla richiesta del privato di vagliare la fondatezza della propria pretesa si oppone l’esistenza di un potere discrezionale dell’amministrazione, fondato su esigenze organizzative o comunque su valori di stampo generalissimo, come, ad esempio, l’esigenza di garantire il servizio nel suo complesso, o l’esigenza di rispettare la corretta modulazione della spesa pubblica

Infine, il giudice amministrativo, a sugello della propria interpretazione restrittiva, invoca il divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati, sancito dall’art. 34, comma 2, c.p.a.

Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali fin qui analizzati, si evince come l’azione contro il silenzio porti, nei casi di suo accoglimento, ad una condanna dell’amministrazione inerte ad un generico provvedere dalla quale deriva unicamente un obbligo procedimentale e strumentale, consistente nel portare a conclusione il procedimento.

Il dictum giudiziale che si intende portare in esecuzione è dotato di un potere conformativo poco incisivo rispetto alla successiva azione della pubblica amministrazione che dovrà attuarlo, la quale è chiamata solo a provvedere entro il nuovo termine assegnatole, senza che dalla sentenza le derivino ulteriori vincoli.

Come anticipato, la sentenza qui in esame sembrerebbe offrire ai ricorrenti una tutela maggiormente piena ed effettiva, discostandosi dagli orientamenti giurisprudenziali propri dell’azione contro il silenzio. 

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Si tratta allora di verificare se effettivamente tale impressione è confermata da un’analisi più puntuale della sentenza e, soprattutto, quali sono le specificità del caso di specie che hanno consentito al giudice di allargare il proprio raggio di azione. 

3.L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione

Una prima peculiarità del caso qui in esame rispetto alla configurazione classica dell’azione contro il silenzio è rappresentata dal fatto che il silenzio si sarebbe formato su una domanda volta a sollecitare l’esercizio di poteri officiosi riconosciuti alla Regione ai fini della tutela degli habitat naturali e non quindi rispetto all’esercizio di poteri attivabili su istanza di parte. 

Con riferimento a questo profilo, la sussistenza di un obbligo di provvedere da parte della Regione nel caso di specie, e soprattutto della sussistenza di un interesse differenziato e qualificato delle due associazioni ricorrenti in relazione all’attivazione dei suddetti poteri, non sono messe in discussione, né dal T.a.r. né dal Consiglio di Stato, accreditando così un’interpretazione estensiva dell’obbligo sancito all’art. 2 della L. 241/90 anche ad ipotesi non specificamente previste dalla legge, nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’obbligo per la pubblica amministrazione di attivarsi e di dare così riscontro all’istanza del privato; ciò avviene tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione. Pur nella varietà delle ipotesi nelle quali il giudice amministrativo riconosce l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere su istanze atipiche, l’obbligo di attivarsi per la pubblica amministrazione si concretizza, però, solo quando l’istante si assume portatore di un interesse giuridico differenziato e qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è richiesto l’esercizio del potere amministrativo, come è stato evidentemente giudicato nel caso di specie. 

Acclarato, almeno in via implicita, l’esistenza dell’obbligo di provvedere in capo alla Regione Lazio, nel caso di specie la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione rispetto all’obbligo di provvedere richiede un’analisi più approfondita da parte del giudice rispetto ai casi di pura inerzia, in quanto, come visto, l’amministrazione competente non è rimasta inerte, ma ha emanato un proprio atto amministrativo.

È allora rispetto a tale atto che il Consiglio di Stato è chiamato a verificare se lo stesso, come sostenuto dal giudice di prime cure, costituisca effettivo adempimento degli obblighi previsti dall’art. 6.2. della Direttiva Habitat.

Per inquadrare correttamente quanto previsto da tale articolo, si ricorda che la Direttiva Habitat, in maniera coordinata con la Direttiva Uccelli, si propone di salvaguardare la biodiversità – considerata patrimonio naturale e comune dell’Unione europea, identitario e unificante dei suoi popoli – a fronte delle molteplici ed eterogenee minacce, naturali e sempre più frequentemente antropiche, che minano la conservazione degli habitat e delle specie selvatiche, compresi gli uccelli.

Per conseguire tale obiettivo, il legislatore comunitario ha previsto la costituzione di una rete ecologica europea di zone da conservare denominata rete Natura 2000 che comprende al suo interno i Siti di Importanza Comunitaria (SIC),che possono essere designati a livello nazionale quali Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e le Zone di Protezione Speciale (ZPS).

Nelle Zone Speciali di Conservazione, qual è l’area relativa al bacino del lago di Vico, gli Stati membri sono tenuti ad adottare apposite misure di conservazione che la normativa distingue in misure proattive, previste dal paragrafo 1, e quelle preventive, disciplinate dal paragrafo 2, rilevanti nel caso qui in esame. 

Le misure relative al paragrafo 2 – in attuazione del principio di prevenzione – sono volte a evitare, che si realizzi del tutto o che possa proseguire, il “degrado degli habitat” e la significativa “perturbazione delle specie” per i quali i siti sono stati designati e inclusi all’interno della rete Natura 2000.

La Corte di Giustizia, nel definire la natura delle misure opportune che ciascuno Stato membro deve adottare per prevenire o comunque per evitare il peggioramento del degrado di un habitat, ha evidenziato come debba trattarsi di un regime giuridico specifico, coerente e completo, in grado di garantire la gestione sostenibile e la protezione efficace dei siti interessati.

Inoltre, si tratta di misure che, nel caso di degrado già in atto, devono essere misure “attive” e “anticicliche”, in grado di invertire il processo che, in assenza di tali iniziative, proseguirebbe in maniera irreversibile.

Chiarita la portata del paragrafo 2 dell’art. 6 della Direttiva Habitat e degli obblighi sussistenti in capo alle amministrazioni nazionali per realizzare gli obiettivi di suddetta direttiva, in punto di fatto, il Consiglio di Stato evidenzia come, nel caso di specie, sia stata ampiamente documentata in corso di causa l’esistenza di una situazione di degrado dell’ecosistema del lago di Vico, dovuta, in particolare, al fenomeno della c.d. “eutrofizzazione”.

Ravvisati quindi, in fatto e in diritto, i presupposti che avrebbero dovuto condurre la Regione Lazio ad adottare le misure imposte dall’art. 6, par. 2, della Direttiva, il Consiglio di Stato ritiene, a differenza del giudice di prime cure, che la Regione sia stata inadempiente rispetto a tale obbligo.

In particolare, il giudice dell’appello ravvisa come le misure adottate dalla Regione Lazio nel caso di specie, richiamate nella nota del 13 luglio 2022 n. 692791 e oggetto peraltro di un apposito approfondimento istruttorio in sede giudiziale, «riguardano le misure di conservazione, e quindi le disposizione relative alle attività ammesse o vietate ai fini dell’ordinaria gestione del sito e della tutela della biodiversità, per le finalità stabilite dall’articolo 6, paragrafo 1, della Direttiva Habitat, ma non contengono misure ai sensi del paragrafo 6.2., ovvero misure proattive tali da invertire efficacemente il trend attuale, e quindi specificamente indirizzate a prevenire e contrastare il progressivo deterioramento del sito, ovvero ad assicurare il ripristino delle caratteristiche ecologiche esistenti al momento della sua designazione quale sito di importanza comunitaria, in particolare per quanto concerne gli habitat 3140 e 3130».

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Accertata la fondatezza nell’an dell’originario ricorso avverso il silenzio-inadempimento della Regione Lazio, il compito del giudice, secondo la classica configurazione dell’azione contro il silenzio richiamata al paragrafo che precede, dovrebbe ritenersi concluso. 

Invece, nel caso di specie, il Consiglio di Stato, in maniera innovativa, si interessa espressamente anche dei «contenuti e del quomodo dell’adempimento», con delle conseguenze rilevanti rispetto alla particolare forza del giudicato proprio della sentenza di condanna emessa. 

4.E la condanna da parte del giudice

La sentenza di condanna emanata dal Consiglio di Stato nel caso di specie non assume le vesti di una condanna a un generico provvedere, quanto piuttosto una condanna della Regione Lazio e dell’Ente Monte Cimini ad «adottare – per quanto di rispettiva competenza – le “opportune misure” di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat per evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024». 

Questo perché, sebbene il giudice, nella generalità dei casi, non possa «pronunciarsi nel merito della pretesa azionata, essendo tale eventualità limitata ai soli atti vincolati e a quelli in relazione ai quali si sia effettivamente esaurito lo spettro di discrezionalità riconosciuto all’Amministrazione e per i quali, al contempo, non siano necessarie attività istruttorie», nel caso in esame «appare chiara al Collegio l’esistenza dei presupposti dell’obbligo di adottare le misure di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat». 

Il Consiglio di Stato aggiunge poi che, sebbene il contenuto delle misure di prevenzione e di contrasto al degrado degli habitat protetti sia di natura tecnico-discrezionale e pertanto l’individuazione del loro contenuto specifico compete alle amministrazioni competenti a emanare le suddette misure, tale discrezionalità è ridotta dall’interpretazione della Corte di Giustizia rispetto alla portata di queste misure, che, come sopra visto, devono risultare “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.

Nello specifico, «a fronte dell’accertato stato di crescente compromissione ambientale del Lago di Vico, la Regione Lazio è tenuta ad adottare misure attive e non solo conservative, ovvero misure idonee a invertire chiaramente il processo di degrado attraverso un adeguato sistema di protezione, per impedire che la prosecuzione tout court delle attività umane incorso produca ulteriori deterioramenti degli habitat e perturbazioni delle specie di interesse. Solo tali misure “anticicliche” ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, possono ormai migliorare lo stato dell’ecosistema, che nel caso di specie – come si è già detto – non si presenta stabile (il che renderebbe sufficienti le misure conservative del paragrafo 1), ma denota un preciso trend di degrado (il che, si ripete, impone l’attivazione anche delle misure proattive del paragrafo 2)».

Pertanto, oltre a condannare la Regione ad adottare le misure opportune ai sensi dell’art. 6.2. della Direttiva Habitat, il Consiglio di Stato precisa, con efficacia di giudicato, come devono essere queste misure nel senso sopra visto. 

Il contenuto tecnico specifico delle misure suddette rimane, invece, appannaggio dell’amministrazione e ciò anche tenendo in considerazione la domanda delle ricorrenti, che non «era volta ad imporre alla Regione l’adozione di misure aventi un contenuto determinato, o comunque di specifiche soluzioni tecniche, quanto a stimolarne l’iniziativa, al fine di assicurare l’adozione di “opportune misure” conformi all’articolo 6, paragrafo 2, della Direttiva Habitat, nei sensi dianzi precisati».

In definitiva, la sentenza di condanna assicura una tutela maggiormente effettiva alle ricorrenti, in quanto, in esecuzione del giudicato derivante dalla sentenza suddetta, la Regione Lazio è obbligata non solo ad adottare le misure opportune per contrastare il degrado del Lago di Vico, ma tali misure devono avere le caratteristiche richiamate dalla sentenza e risultare quindi “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.

Qualora le ricorrenti ritenessero che le future misure adottate dalla Regione o dal commissario ad acta in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione competente in esecuzione della sentenza suddetta non avessero i requisiti sopra richiesti, potrebbero infatti chiedere l’accertamento della nullità del provvedimento adottato per violazione e/o elusione del giudicato ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. c) del c.p.a. nel più disteso termine di 10 anni previsto per l’actio iudicati.

5.Conclusioni

La maggior tutela riconosciuta al privato all’esito del presente giudizio azionato contro il silenzio della pubblica amministrazione rappresenta certamente il frutto del sapiente utilizzo da parte del giudice amministrativo dei propri poteri di cognizione, unitamente a quelli istruttori, rispetto ad una attività dell’amministrazione di natura vincolata.

Se, infatti, si va ad analizzare la norma europea e la sua trasposizione nazionale che disciplina l’obbligo dell’amministrazione competente di emanare le misure opportune ad evitare il degrado di una zona protetta, ci si avvede di come si tratti di una norma costruita come “norma-fatto-effetto”, per cui, una volta accertata la sussistenza della situazione di degrado, l’amministrazione è vincolata ad adottare le misure opportune. 

Nel caso di specie, come visto, il giudice ritiene dimostrata la situazione di degrado del sito relativo al lago di Vico, dalla quale sorge necessariamente il conseguente obbligo posto in capo alla Regione per interrompere il processo di degrado in atto. 

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Tuttavia, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, non si è limitato ad accertare lo stato di degrado del sito – peraltro riconosciuto dalla stessa amministrazione regionale in suoi diversi provvedimenti e non contestato in sede giudiziale – ma ha compiuto un sindacato estremamente pregnante rispetto alle misure asseritamente adottate dalla Regione per adempiere a tale obbligo. 

In altre parole, il giudizio sul silenzio si è trasformato in un giudizio sull’atto – nello specifico sulla nota della Regione Lazio del 13 luglio 2022, n. 692791 – al fine di verificarne la rispondenza al modello normativo europeo, alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, vincolante per il giudice e, ancora prima, per le amministrazioni dei singoli Stati membri.

Si ritiene dunque, in primo luogo, che la maggior incisività del sindacato operato dal giudice derivi proprio dalla circostanza che il giudizio, nel caso qui in esame, non è un “classico” giudizio sul silenzio dell’amministrazione, ma ha al suo centro l’esame di un atto, proponendo così uno schema all’interno del quale il giudice amministrativo si muove con maggior disinvoltura[57]

In secondo luogo, la vincolatezza nell’an, che si traduce nell’obbligo della Regione di adottare le misure opportune ai sensi del paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat in presenza di uno stato di degrado, si espande anche al contenuto di queste “misure opportune” che devono avere le caratteristiche enunciate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. 

Infine, in via più generale, è possibile che la maggior tutela riconosciuta al ricorrente nel caso di specie derivi anche dal fatto che il contezioso si è sviluppato in una materia quale quella ambientale in cui gli spazi di tutela riconosciuti, anche proprio grazie all’influenza del diritto europeo, sono più ampi.  

Per rispondere allora al quesito che ci si è posti nel titolo del presente contributo, in conclusione si può certamente affermare che la sentenza qui in esame si discosta dagli orientamenti giurisprudenziali formatasi in relazione alla tutela contro il silenzio, fornendo ai ricorrenti una tutela maggiormente effettiva. 

Il Consiglio di Stato, diversamente dal giudice di primo grado, non si è limitato a verificare se la Regione Lazio avesse provveduto o meno in merito all’istanza-diffida presentata dalle ricorrenti, ma una volta verificato che rispetto a quella istanza vi era stata una risposta da parte dell’amministrazione ha voluto verificarne il contenuto e, soprattutto, la sua rispondenza alla norma, così come interpretata a livello europeo. 

Ciò è stato fatto senza alcuna indebita ingerenza nel campo di azione riservato all’amministrazione, dal momento che il contenuto specifico e tecnico delle “misure opportune” che dovranno essere adottate rimane di stretto appannaggio della Regione Lazio. 

Si tratterà allora di verificare se gli approdi raggiunti nella pronuncia qui in esame saranno generalizzati anche ad altri casi di giudizio contro il silenzio oppure se la sentenza qui esaminata rimarrà un unicum isolato, frutto delle speciali e specifiche condizioni che hanno potuto condurre il giudice amministrativo ad una pronuncia di tal fatta. 

 

 

 In dottrina è d’obbligo il rimando a F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1963, il quale mette a nudo la natura fattuale del silenzio, quale omissione rispetto al dovere giuridico di emanare il provvedimento, costruendo la sua teoria sul silenzio sulla base del concetto di funzione. Si vedano in particolare pp. 31- 32 nelle quali l’Autore scrive: «È partendo dal concetto di funzione che si può e si deve arrivare alla qualificazione giuridica del silenzio. Questo, considerato come una pausa dell’azione amministrativa, come inerzia della Pubblica Amministrazione mantenuta di fronte allo scopo dell’attuazione dell’interesse pubblico, deve essere inteso come punto di crisi nello sviluppo della funzione amministrativa». La tesi del silenzio come inadempimento rispetto all’obbligo di provvedere incontrò il favore di diversi autori; si veda in particolare F. La Valle, Profili giuridici dell’inerzia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 360; Id., Azione di impugnazione e azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, 159; S. Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1962, I, 34; A.M. Sandulli, Sull’impugnabilità giurisdizionale del silenzio serbato dall’amministrazione sul ricorso straordinario, in Giust. Civ., 1962, II, 179; F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 163 e ss.

 A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti dell’azione di condanna, in Dir. proc. amm., 2/2017, 450; C. Guacci, La tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione secondo il codice del processo amministrativo, Torino, 2015.

 La legittimazione delle due associazioni a proporre il ricorso non costituisce una questione controversa nel giudizio in esame e si ricava dalla qualificazione delle due associazioni, in particolare che: «La ClientEarth AISBL, quale organizzazione non-profit con sede in Bruxelles avente con finalità di protezione degli ecosistemi, le persone ed il pianeta, nonché la Lega Italiana Protezione Uccelli – Lipu ODV, a sua volta in qualità di associazione ambientale riconosciuta, ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349, mediante decreto del Ministero dell’Ambiente (oggi, della Transizione Ecologica), con scopo di conservazione della biodiversità e promozione della cultura ecologica». In merito alla legittimazione degli enti posti a presidio dei c.d. interessi collettivi si confronti la recente Adunanza Plenaria del 20 febbraio 2020 n. 6. In tale sentenza il Consiglio di Stato, chiamato a definire se «alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore» osserva che: «il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela». Per un meditato commento di questa sentenza si confronti P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 135 e ss.

 In merito alla portata di questi obblighi si rimanda al par. 3 del presente contributo. 

 Cons. St., sez. IV, 12 ottobre 2023, n. 8897. 

 T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1926. 

 T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1925.

 La giurisprudenza ha riconosciuto al privato la legittimazione a impugnare i c.d. atti soprassessori, emanati dall’amministrazione in elusione al proprio dovere di provvedere, mediante il rito contro il silenzio. Si confronti sul punto Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2013, n. 2511, nel quale si compie una corretta distinzione tra atti endoprocedimentali che comportano un arresto del procedimento e atti soprassessori, prima invece accomunati dalla giurisprudenza con riguardo alle modalità di impugnazione. In particolare si sottolinea che: «Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l’ipotesi di azione avverso l’inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell’eventuale fondatezza dell’istanza (già previsti dall’art. 6 bis della legge n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l’azione sul silenzio: e ciò sul presupposto che siffatto atto non costituisca il provvedimento terminativo del procedimento, che l’amministrazione ha l’obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L’atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l’istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell’obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l’attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell’obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. È evidente tuttavia che poiché l’interesse a ricorrere deriva non dall’inerzia assoluta ma dal comportamento soprassessorio, l’azione è ritualmente introdotta attraverso l’impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell’obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell’inerzia. L’impugnazione è cioè strumentale ad una pronuncia che constatata la natura soprassessoria dell’atto e dichiarata la permanenza dell’obbligo di provvedere, condanni l’amministrazione ad emanarlo immediatamente».

 Art. 6, par. 2 della c.d. Direttiva Habitat (Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) «Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva». 

 Art. 4, comma 1, del Decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano assicurano per i proposti siti di importanza comunitaria, le opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie, nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi del presente regolamento».

 Sull’operatività di questo principio nel processo amministrativo si confronti V. Domenichelli, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1/2020, 26 e ss. 

 Sulla differenza tra il vizio di omessa pronuncia e il rigetto implicito della domanda nel processo amministrativo si confronti M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio, in Dir. proc. amm., 2/2020, 347 «La presenza di una pluralità di domande in giudizio comporta innanzitutto che il vizio di omessa pronuncia si possa configurare, oltre che nella forma della trattazione parziale della domanda, anche nella forma più grave dell’omissione della pronuncia su una delle domande proposte, perché tale omissione, pur in assenza di extra petizione, non impedisce di pervenire comunque ad una sentenza cui sia riferibile il vizio. Il silenzio del giudice su una delle domande cumulativamente proposte non integra però l’omessa pronuncia quando la domanda rimasta senza espressa decisione sia da intendere comunque implicitamente decisa, in ragione dei rapporti sussistenti tra la stessa e quella o quelle espressamente decise. In particolare, è implicitamente decisa (nel senso del rigetto) la domanda il cui accoglimento sia precluso dalla decisione assunta in relazione ad un’altra domanda, in ragione dei nessi obiettivi di pregiudizialità-dipendenza, accessorietà, incompatibilità, alternatività tra le stesse».

 Esprime biasimo rispetto alla scelta del legislatore di non aver dedicato alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio della pubblica amministrazione una disciplina organica e omogenea, disseminata invece in diversi capi del codice, C. Guacci, La tutela, cit., 62. Per un’analisi della disciplina dell’azione contro il silenzio prima dell’entrata in vigore del c.p.a. si confronti B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione (voce), in Digesto Pubbl., 1999, XIV, 156; S. Mirate, Silenzio della pubblica amministrazione e azione di condanna: riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo nel giudizio ex art. 21 bis della L. 1034/71, in Giur.it., 2001, I, 1993.

 Secondo A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 456 «La giurisprudenza pratica attribuisce all’azione contro il silenzio una natura mista e ne afferma la scindibilità concettuale in due distinte domande. La prima è rivolta a ottenere una pronuncia dichiarativa, la quale ha ad oggetto l’accertamento della violazione da parte dell’amministrazione dell’obbligo di definire il procedimento entro il termine prescritto dalla normativa legislativa o regolamentare. La seconda è inquadrabile nelle azioni di condanna ed è diretta a ottenere una pronuncia che impartisca un ordine alla pubblica amministrazione» che, secondo l’Autrice, nella maggior parte dei casi, ha ad oggetto un «ordine a provvedere, quale che sia il contenuto del provvedimento».

 Come ribadito in una recentissima sentenza del T.a.r. Napoli (sez. VI, 06 giugno 2024 n. 3587), per giurisprudenza costante «l’azione contro il silenzio-inadempimento ex art. 31 e 117 c.p.a. non è esperibile avverso qualsiasi tipologia di inerzia dell’Amministrazione ma solo quando l’obbligo di provvedere implichi l’esercizio di una potestà autoritativa. La possibilità di contestare davanti al giudice amministrativo il silenzio serbato dall’Amministrazione costituisce, infatti, uno strumento processuale che non determina un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovendosi avere riguardo invece, in ordine al riparto, alla pretesa sostanziale cui si riferisce la dedotta inerzia amministrativa (cfr., tra le altre, Cons. Stato, sent. n. 987 e 860 del 2016; n. 4689 del 2018; Tar Campania, Napoli, sent. n. 3031 del 2018, n. 5999 del 2018, n. 5127 del 2015)».

 Su questi profili dell’azione contro il silenzio si confronti S. Franca, L’azione di condanna a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, in P. Cerbo, G. D’Angelo, S. Spuntarelli (a cura di), Amministrare e giudicare. Trasformazioni ordinamentali, 2022, 76 e ss. 

 N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo. Principi e regole, Napoli, 2024, 275. 

 Osserva giustamente C. Guacci, La tutela, cit., 155-156, «Cognizione del giudice non è la fondatezza dell’istanza, come originariamente previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990, bensì la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. La modifica non ha una valenza puramente terminologica, conseguenza della decisione del legislatore di voler utilizzare un termine tecnicamente più preciso, ma possiede una portata normativa di ordine sostanziale. Quando si parla di “fondatezza dell’istanza” si fa riferimento alla richiesta formulata all’amministrazione, vale a dire all’istanza che avrebbe dovuto dare corso al procedimento rimasto interrotto. Invece, quando si parla di fondatezza della pretesa dedotta in giudizio si fa riferimento alla domanda processuale e, in particolare, a quella parte dell’istanza rimasta inevasa dall’amministrazione, che il ricorrente ha ritenuto di coltivare in sede giurisdizionale. Il giudice conosce quello che è oggetto della domanda giudiziale e, quindi, conosce l’istanza inoltrata all’amministrazione se e nella misura in cui il ricorso giurisdizionale lo abbia investito della sua cognizione».

 Sottolinea questo aspetto A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 471, per la quale la pluralità dei rimedi messi a disposizione dei soggetti lesi dall’azione o dall’inazione della pubblica amministrazione «comporta la libertà per il ricorrente di individuare, tra gli strumenti forniti dal legislatore, quello più acconcio rispetto alla propria specifica esigenza».

 Evidenzia A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere. Riflessioni sul processo amministrativo fondato su una pluralità di azioni, in Dir. proc. amm., 1/2018, 201, nota 56, come sia che la decisione del g.a. si sostanzi nella mera declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione a provvedere, sia a fortiori nel caso in cui indichi il contenuto del provvedimento richiesto, ciò che interessa al ricorrente non è la sussistenza di un obbligo a provvedere in quanto tale, ma l’ottenimento (perlomeno) di un provvedimento esplicito, se non (ricorrendone i requisiti) del provvedimento richiesto. In ogni caso, dunque, si riscontrano quei caratteri che permettono di qualificare l’azione in esame come azione di condanna.

 Come, infatti, osserva P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del codice del processo amministrativo), in Dir. proc. amm., 2/2013, 391 «Ed è proprio intorno alla possibilità che il giudice si sostituisca (sin dalla fase di cognizione) all’amministrazione, ordinandole di adottare un determinato atto, che si avvolge il nodo problematico più importante e interessante in tema di azione di adempimento nel diritto processuale amministrativo». 

 Osserva S. Franca, L’azione di condanna, cit., 89 per il quale «i limiti posti dall’art. 31, co. 3, c.pa. si mostrino più funzionali a mantenere consistenti sacche di insindacabilità dell’operato della pubblica amministrazione, piuttosto che preservare, come talvolta argomentato, il principio di divisione dei poteri».

 È noto, infatti, che nel momento in cui il giudizio contro il silenzio si trasformò in un giudizio che aveva per oggetto non l’impugnazione di un ipotetico atto fittizio, ma un giudizio sul comportamento inerte della pubblica amministrazione, si crearono all’interno della giurisprudenza due distinti orientamenti in relazione all’oggetto di questo giudizio: all’indirizzo più restrittivo, che riteneva che il giudice dovesse limitarsi ad acclarare l’inosservanza del dovere di provvedere gravante sull’amministrazione, se ne affiancò un altro, per il quale l’oggetto della cognizione del giudice doveva spingersi anche alla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, nei casi di provvedimenti vincolati o a basso contenuto di discrezionalità. Il dibattito si è riproposto in termini identici anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento del rito speciale contro il silenzio, avvenuta per mezzo dell’articolo 2 della legge n. 205/2000 che ha aggiunto l’art. 21-bis alla legge n. 1034/1971, ed è culminato nell’emanazione della sentenza n. 1/2002 da parte dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato In controtendenza rispetto all’ordinamento prevalente, l’Adunanza plenaria accolse l’interpretazione restrittiva, ritenendo che il giudizio disciplinato dall’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 fosse diretto ad accertare se il silenzio violi l’obbligo di adottare un provvedimento esplicito sull’istanza del privato e che il giudice, in nessuna fase del giudizio, si potesse sostituire all’Amministrazione, limitandosi ad accertare se il silenzio fosse o meno illegittimo, e nel caso di accoglimento del ricorso imporre all’amministrazione medesima di provvedere sull’istanza entro il termine assegnato. Approvano il tenore della decisione A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, 227; F. Saitta, Impugnativa del silenzio e motivi di merito, in Foro amm. C.d.S., 2002, 49. Si esprimono criticamente sulla scelta della Plenaria F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e tutela soggettiva, in Dir. proc. amm., 4/2002, 936; E. Sticchi Damiani, La diffida a provvedere nel giudizio avverso il silenzio dell’amministrazione, in Foro amm., T.a.r., 2002, 4217 ss.; Id, L’accertamento della fondatezza dell’istanza nel giudizio sul silenzio, in Foro amm., T.a.r., 2005, 3365 ss., il quale, in quest’ultimo saggio afferma come la pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 1/2002 costituisca un arretramento sul versante della tutela, iscritto in una complessiva logica conservatrice, volta a ribadire la natura attizia e impugnatoria del processo amministrativo; S. Mirate, La natura del giudizio ex art. 21 bis l. 1034/1971: l’Adunanza plenaria limita il sindacato del giudice amministrativo all’illegittimità del silenzio, in Giur.it., 2002, III, 1285. 

 Nei casi in cui il giudice amministrativo ravvisi la manifesta infondatezza della pretesa, non accerta l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere, ma rigetta semplicemente il ricorso, ritenendo diseconomico obbligare la pubblica amministrazione a provvedere nei casi in cui il privato non avrebbe comunque diritto a ottenere quel bene della vita. Come però giustamente osserva A. Carbone, L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 112, «in tal modo, il giudizio avverso il silenzio, di regola volto a valutare il mero inadempimento dell’autorità amministrativa, si estende alla fondatezza dell’istanza solo “in malam partem”, solo laddove, cioè, ciò sia necessario per negare l’accoglimento del ricorso». Ritiene invece N. Posteraro, Riflessioni a proposito del rito avverso il silenzio inadempimento, in Foro amm., 2017, 802 e ss., che il giudice possa esprimere anche d’ufficio un giudizio sulla fondatezza della pretesa del privato nei casi in cui essa sia manifestamente infondata «in ossequio al principio di economicità e nell’ottica di un corretto bilanciamento interesse pubblico-interesse del privato», purché comunque si pronunci relativamente alla domanda volta a chiedere l’accertamento del silenzio della pubblica amministrazione. L’Autore conferma questa visione in N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, cit., 278. 

 In verità, anche nei casi in cui la fondatezza della pretesa non sia immediatamente manifesta, sarà comunque possibile per il ricorrente chiedere al giudice di pronunciarsi su questa questione, proponendo contestualmente all’azione contro il silenzio l’azione di adempimento ex art. 34, comma 1, lettera c), che segue i ritmi più distesi del rito ordinario. Osserva giustamente A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 474, «al rito ordinario è del resto sicuramente soggetta l’azione di adempimento quando è proposta contestualmente a quella di annullamento del provvedimento negativo. Alla stessa conclusione si deve giungere quando la medesima è proposta contestualmente all’azione contro il silenzio. Un trattamento processuale differenziato, nelle due ipotesi, risulterebbe del tutto ingiustificato».

 L’art. 87 c.p.a., analogamente a quanto stabiliva l’art. 21 bis legge n. 1034/1971, prevede che il giudizio in materia di silenzio deve essere trattato in camera di consiglio. L’intento acceleratorio è percepibile, oltre che dalla scelta di trattare la causa in camera di consiglio, anche dalla disposizione (art. 117, comma 2), che prevede che il ricorso debba essere deciso con sentenza in forma semplificata. Critica questa interpretazione M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 3/2014,717, per la quale «l’introduzione di un rito speciale è divenuta strumento di diminuzione della tutela giurisdizionale: la specialità del rito è stata invocata per giustificare una cognizione limitata del giudice, con un cortocircuito tra accertamento della fondatezza della pretesa e carattere accelerato e semplificato del rito processuale». 

 L’accertamento del fatto complesso nel processo amministrativo intreccia, inevitabilmente, il tema del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione. A dimostrazione di tale biunivoca corrispondenza, S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015 p. 208, nota 11: «nel giudizio amministrativo il rapporto tra giudice e fatto complesso è stato studiato, essenzialmente, in relazione al

controverso tema del sindacato sulla discrezionalità tecnica».

 T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 11 dicembre 2017, n. 12204; Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 736; T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, 16 febbraio 2015, n. 167, in www.giustiziamministrativa.it.

 P. Cerbo, L’azione di adempimento nel processo amministrativo e i suoi confini, in Dir. proc. amm., 1/2017, 21.

 P. Cerbo, op. ult.cit., 22.

 T.a.r.. Campania Napoli Sez. VII, 23 luglio 2018, n. 4892, dove si legge, «Il ricorso avverso il silenzio serbato dall’amministrazione su di un’istanza sulla quale essa ha l’obbligo di provvedere è finalizzato ad ottenere un provvedimento esplicito che elimini lo stato di incertezza ed assicuri al contempo al privato una decisione che investe la fondatezza della sua pretesa, fermo restando tuttavia che al giudice adito non è concesso di sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, dovendo egli limitarsi a valutare la astratta accoglibilità della domanda, senza sostituirsi agli organi dell’amministrazione quanto agli apprezzamenti, alle valutazioni ed alle scelte discrezionali, pronunciando quindi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati». Tuttavia, come puntualmente osservato da G. Corso, Commento all’art. 34, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 340 e A. Carbone, L’azione di adempimento, cit., 201 e ss., tale divieto si riferisce alle domande giudiziali con le quali il privato richiede un’inibitoria sull’esercizio di un potere futuro, oppure con le quali si chiede di condizionare un procedimento non ancora concluso, e mai può essere riferito all’ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione fatta valere tramite l’azione contro il silenzio, dal momento che, in questo caso, si è in presenza di un potere opportunamente sollecitato dal privato che, tuttavia, non è stato esercitato. In termini anche P. Cerbo, Il limite dei poteri amministrativi non ancora esercitati: una riserva di procedimento amministrativo? in Dir. proc. amm., 1/2020, 96. 

 Cons. Stato, sez. V, 09 ottobre 2018, n. 5794, che rievoca quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 9 giugno 2016, n. 11, la quale ha statuito che dal giudicato «deriva solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell’opera). Utilizzando una distinzione offerta dalla dottrina civilistica, si può dire che dalla sentenze in esame deriva una obbligazione di mezzi (o, comunque, una obbligazione di risultato strumentale), non una obbligazione di risultato finale.”, nonché, più ampiamente, “In quel giudizio (sul silenzio – inadempimento), come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l’attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla pubblica amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall’art. 31, 2° comma, cod. proc. amm., operante anche nella vigenza dell’art. 21 bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all’amministrazione nell’esercizio di valutazioni discrezionali».

 Con riferimento alle particolarità del giudizio di ottemperanza nelle ipotesi del giudizio contro il silenzio e del ruolo particolare assunto dal commissario ad acta che adotta l’atto al posto dell’amministrazione rimasta inerte, senza ricavare alcun vincolo o indicazione dalla sentenza del giudice, atteggiandosi alla stregua di un organo straordinario dell’amministrazione si confronti M. Ramajoli, Forme e limiti, cit., 742. Tale ricostruzione è stata però rivista dal Consiglio di Stato con l’Adunanza Plenaria 25 maggio 2021, n. 8. In tale pronuncia, ai fini che più interessano, si legge che: «la disciplina normativa, nel definire espressamente, come si è visto, il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo (straordinario)dell’amministrazione. E ciò ricorre anche nei casi in cui il commissario, più che dare seguito a specifici aspetti già definiti dalla pronuncia in un’ottica stricto sensu esecutiva, per le finalità del proprio incarico esercita poteri discrezionali, come nel caso in cui, stante la perdurante inerzia dell’amministrazione, egli debba provvedere sulla istanza del cittadino o dell’impresa, senza che la sentenza abbia determinato il contenuto del potere da esercitare». Con riguardo invece al rapporto tra commissario ad acta e amministrazione soccombente il Consiglio di Stato afferma che: «il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto», specificando che: «gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio». Per un commento alla sentenza si confronti A. Scognamiglio, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in Questa rivista, 16 settembre 2021,

 Ciò in verità non è altro che il riflesso dell’inidoneità della sentenza di condanna di definire compiutamente il rapporto tra privato e amministrazione sottoposto alla sua cognizione in presenza di poteri discrezionali (si confronti, ad esempio, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018, 123 e ss. Altra questione si pone quando il giudice, nei limiti previsti dall’art. 31, co. 3, c.p.a. arriva a pronunciarsi sulla fondatezza (o sull’infondatezza) della pretesa. In questa ipotesi, come puntualmente evidenziato da A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere, cit., 234, «il giudice adotta una decisione idonea a ̕chiudere̕ definitivamente il potere amministrativo, operando nei suoi confronti come preclusione a porsi in contrasto con la determinazione della pretesa nel senso effettuato dalla sentenza».

 Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955; Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318; Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; Cons. Stato., sez. IV, 24 aprile 2012, n. 2468; Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2545; Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182; Cons. Stato, sez. IV, 29 maggio 2015, n. 2688; T.a.r. Roma, Lazio, sez. II, 4 gennaio 2016, n. 43; T.a.r. Salerno, Campania, sez. II, 19 dicembre 2017 n. 1765; Cons. St., sez. VI, 9 gennaio 2020, n. 183.

 Per le diverse ipotesi in cui la giurisprudenza rinviene l’obbligo di provvedere in presenza di istanze atipiche si confronti S. Vernile, Il provvedimento amministrativo in forma semplificata, Napoli, 2017, 54 e ss.

 Tale circostanza è estremamente rilevante perché consente al giudice di operare un sindacato maggiormente penetrante nel caso di specie. Sottolinea questa circostanza in via generale D. Vaiano, L’azione di adempimento nel processo amministrativo: prime incertezze giurisprudenziali, in Giur. it., 2012, 719, e cioè che «la situazione che si viene a delineare in un’azione di adempimento promossa nei confronti di un diniego espresso che sia già stato adottato dall’amministrazione è completamente diversa rispetto a quella che si presenta all’attenzione del giudice nel caso dell’azione nei riguardi del silenzio-inadempimento, nella quale ultima, non essendovi stata attività dell’amministrazione, non potendosi sindacare la congruità della motivazione apposta al diniego, non essendo intervenuti atti procedimentali in grado di orientare i ragionevoli esiti del procedimento amministrativo, ben si comprende come assai più raramente il giudice amministrativo potrà riscontrare la presenza dei presupposti necessari per pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa». 

 Per un’analisi complessiva di queste due normative si segnalano A. Porporato, La tutela della fauna, della flora e della biodiversità, in A. Crosetti (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Vol. III, La tutela della natura e del paesaggio, Milano, 2014, pp. 737 ss.; A. Conio, F. Dinelli, Tutela della biodiversità e protezione della natura e del mare, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021. 

 La ricomprensione di un determinato territorio all’interno di un SIC avviene mediante l’adozione da parte della Commissione Europea della Decisione contenente la lista dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC), elaborata sulla base delle liste nazionali proposte dagli Stati membri. 

 Si tratta di zone individuate formalmente dagli Stati membri volte al mantenimento e al ripristino di differenti tipi di habitat (selezionati per le loro caratteristiche naturali o per le specie che vi vivono). 

 Si tratta di territori idonei, per estensione e localizzazione geografica, alla conservazione degli uccelli selvatici e dell’avifauna migratoria, che vengono designate dagli Stati membri sulla base della Direttiva Uccelli.

 Art. 6, par. 1 della Direttiva Habitat «Per le zone speciali di conservazione, gli Stati membri stabiliscono le misure di conservazione necessarie che implicano all’occorrenza appropriati piani di gestione specifici o integrati ad altri piani di sviluppo e le opportune misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze

ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all’allegato I e delle specie di cui all’allegato II presenti nei

siti». Secondo la “Guida all’interpretazione dell’art. 6 della direttiva 92/43/CEE (2019/C 33/01)”, elaborata dalla Commissione Europea, il paragrafo 1 dell’art. 6 «prevede misure di conservazione positive, che comportano, ove necessario, piani di gestione, e misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all’allegato I e delle specie di cui all’allegato II presenti nei siti. A

tale proposito, l’articolo 6, paragrafo 1, si distingue dagli altri tre paragrafi dello stesso articolo che

prevedono misure preventive per evitare il degrado, la perturbazione delle specie e conseguenze

significative per i siti di Natura 2000». 

 Sul principio di prevenzione si confronti F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia

di rifiuti, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 2/2011, in particolare pp. 16-26; M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 1-2/2012, 77-78. 

 Il valore delle statuizioni della Corte in relazione all’interpretazione delle disposizioni del diritto UE è riconosciuto dallo stesso Consiglio di Stato nella sentenza qui in esame, riconoscendo alle stesse «operatività immediata negli ordinamenti interni, vincolando il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita sia in sede di rinvio pregiudiziale che in sede di procedura di infrazione».

 Corte giust., sez. II, sentenza dell’11 dicembre 2008, Commissione/Grecia, C-293/07, EU:C:2008:706, punti 26–29; Corte giust., sez. IV, sentenza del 10 giugno 2010, Commissione / Italia, C-491/08, Corte giust., sez. IV, sentenza del 22 settembre 2011, Commissione europea/Regno di SpagnaC-90/10. 

 Corte giust., sez. IV, sentenza del 24 novembre 2011, Commissione/Spagna, C-404/09, EU:C:2011:768, punto 135; più di recente Corte giust., sez. VI, 22 giugno 2022, Commissione/Repubblica slovacca, C-661/20, punti 98-111. 

 Secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta di un «fenomeno di arricchimento trofico di laghi, di stagni e, in genere, di corpi idrici a debole ricambio; è dovuto al dilavamento dei fertilizzanti usati nella coltivazione delle terre circostanti o all’inquinamento organico prodotto dalle attività umane o a prodotti di rifiuto industriali. Provoca le cosiddette fioriture del fitoplancton che, abbassando il tasso di ossigeno, rendono l’ambiente inadatto per altre specie (per es., pesci)». Con riferimento al lago di Vico, il Rapporto ISPRA 2020 richiamato nella sentenza aveva evidenziato come le attività di coltivazione (in particolare del nocciolo) hanno comportato un continuo apporto di nutrienti nelle acque del lago, che ha alterato lo stato del corpo idrico, aggravandone l’eutrofizzazione, con conseguente progressivo costante degrado degli habitat tutelati e, in particolare, la contrazione o la scomparsa di molte comunità vegetali. 

 Si tratta, nello specifico: della D.G.R. n. 162 del 14 aprile 2016 con la quale sono state adottate misure di conservazione specifiche per quanto concerne le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) IT6010023 “Monte Fogliano e Monte Venere” e IT6010024 “Lago di Vico”; della D.G.R. n.612 del 16 dicembre 2011 recente le misure di conservazione da applicarsi nelle Zone di protezione Speciale (ZPS) e nelle Zone Speciali di Conservazione (ZSC) della “Rete Natura 2000”, in sostituzione della D.G.R. 16 maggio 2008 n. 363;; della D.G.R. n. 795 del 23 novembre 2021 recente l’adozione definitiva del “Quadro di azioni prioritarie” (Prioritized Action Framework, PAF) per la programmazione 2021-2027 per la “Rete Natura 2000” nel territorio della Regione Lazio ai sensi dell’articolo 8 della Direttiva 92/43/CEE (c.d. Direttiva Habitat) e dell’art. 3, comma 4, del d.P.R. n. 357 del 1997; della Determinazione Dirigenziale n. G10519 del 4 agosto 2022 relativa al trasferimento d fondi all’Ente Monti Cimini Riserva naturale Lago di Vico finalizzati ad interventi per la salvaguardia ambientale del Lago. Tutti questi provvedimenti sono richiamati nella nota della Regione Lazione del 13 luglio 2022 n. 692791 e nella relazione istruttoria predisposta su richiesta del giudice secondo quanto precisato alla nota che segue. 

 Con l’ordinanza collegiale n. 8865 dell’11 ottobre 2023 la Sezione aveva disposto incombenti istruttori nei confronti della Regione Lazio e dell’Ente Monti Cimini, consistenti nell’acquisizione di una documentata e dettagliata relazione di chiarimenti concernente le misure eventualmente adottate, o in corso di elaborazione, aventi il fine specifico di contrastare il degrado ambientale del lago di Vico.

 Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.1. 

 Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.5 che richiama quale autorevole precedente conforme Cons. St., Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, la quale, in relazione al giudizio contro il silenzio precisa che: «In quel giudizio, come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l’attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla Pubblica Amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall’art. 31, comma 2, c.p.a., operante anche nella vigenza dell’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all’Amministrazione nell’esercizio di valutazioni discrezionali».

 Sull’efficacia oggettiva del giudicato e, in particolare, sull’estensione del giudicato oltre il dispositivo della sentenza, si confronti, da ultimo, il lavoro monografico di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, in particolare 232 e ss. Si confronti altresì C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 257 e ss. 

 Ciò risulta in maniera chiara dalla sentenza di prime cure, ove si legge che il giudizio era volto all’accertamento e alla declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio e alla conseguente condanna della Regione a pronunciarsi sull’istanza presentata entro il termine di 30 giorni, senza la proposizione di una autonoma azione di adempimento ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a. 

 Sul punto si confronti G, Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo, cit., 681 e ss. 

 Con l’opportuna precisazione che l’effetto giuridico non deriva direttamente dalla legge, ma pur sempre dall’esercizio del potere nonostante non sussista possibilità di scelta in ordine al contenuto del provvedimento. In questo senso si confronti F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottant’anni di M.S. Giannini, Milano, 1955, 278 per il quale: «da un lato c’è il potere di figurare (o disegnare) l’effetto, determinando la disciplina (il regolamento) degli interessi; dall’altro c’è il potere di costituire l’effetto, realizzando l’assetto di interessi prefigurato». 

 A. Squazzoni., L’azione di accertamento con riferimento al silenzio-assenso: amministrare giudicando? Un’analisi della giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 4/2021, 764. 

 Si ritiene, ad esempio che l’influenza del diritto europeo in materia ambientale abbia indotto il giudice amministrativo a disegnare la legittimazione e l’interesse a ricorrere in modo da garantire una maggiore effettività della tutela giurisdizionale. In merito si rimanda all’analisi di B. Marchetti, Il sistema integrato di tutela, in L. De Lucia, B. Marchetti

(a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Bologna, 2015, 199, che sottolinea come le modifiche ai

Trattati in punto di ampliamento della legittimazione dei privati siano guidate, per l’appunto, dal principio di effettività della tutela.



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