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La caccia ai paradisi fiscali: una battaglia contro la libertà economica #finsubito prestito immediato


Mentre cinque Stati europei guidano la classifica dei paradisi fiscali per le multinazionali, l’ossessione per la tassazione non risolve il problema.
È piuttosto il momento di ripensare i sistemi fiscali nazionali per garantire competitività e libertà economica
.

Alcuni recenti articoli di due tra i maggiori quotidiani nazionali, come il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, hanno riacceso i riflettori su un fenomeno che, ciclicamente, diventa oggetto di discussione pubblica e politica: la presenza di paradisi fiscali in Europa, con Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svizzera e Cipro tra le dieci principali destinazioni mondiali per le multinazionali alla ricerca di trattamenti fiscali vantaggiosi. Questo dato, spesso interpretato come un segnale di allarme per l’economia globale, è in realtà un indicatore di un problema più profondo: l’inefficienza dei sistemi fiscali nazionali che spinge le imprese a cercare alternative più sostenibili per la propria crescita.

Secondo uno studio della Tax Justice Network, che ha analizzato la situazione di 70 Paesi, i paradisi fiscali causerebbero una perdita fiscale globale di circa 245 miliardi di dollari all’anno. Ma è veramente colpa di questi Paesi se altre nazioni non riescono a trattenere le proprie imprese? Le multinazionali si muovono laddove trovano condizioni più favorevoli per investire e sviluppare le loro attività. Se da un lato la presenza di paradisi fiscali può sembrare un segnale di concorrenza sleale, dall’altro è il riflesso di una competitività fiscale che premia gli Stati capaci di attrarre capitali, posti di lavoro e innovazione.

L’Irlanda, ad esempio, è spesso al centro delle polemiche per la sua aliquota fiscale sulle imprese del 12,5 per cento, una delle più basse in Europa. Tuttavia, questa scelta le ha permesso di diventare uno degli hub tecnologici più importanti al mondo, attirando giganti come Apple, Google e Facebook. Nel 2021, la stessa ha raccolto circa 14 miliardi di euro in tasse dalle multinazionali, contribuendo in modo sostanziale alle entrate pubbliche del Paese. Il Pil irlandese è cresciuto del 13,5 per cento nel medesimo anno, spinto soprattutto dagli investimenti esteri, in particolare nel settore tecnologico. Secondo dati del Financial Times, oltre 800 multinazionali operano in Irlanda, generando più di 250mila posti di lavoro.

Il Lussemburgo, nonostante una popolazione inferiore al milione di abitanti, ospita oltre 60mila società, attratte da una struttura fiscale che facilita le operazioni internazionali. Il suo Pil pro-capite è tra i più alti al mondo, con oltre 120mila dollari annui, grazie anche alla presenza di numerose aziende finanziarie e società multinazionali.

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I Paesi Bassi, a loro volta, pur avendo un’aliquota nominale del 25 per cento sulle società, offrono accordi fiscali bilaterali vantaggiosi e incentivi che riducono significativamente il carico fiscale per le multinazionali. Amsterdam è considerata un hub strategico per molte imprese internazionali, in particolare nel settore logistico e tecnologico, con l’Olanda che attrae circa 80 miliardi di euro di investimenti esteri ogni anno.

La Svizzera, poi, nota storicamente per la sua neutralità economica e politica, offre una tassazione competitiva che varia a seconda del Cantone, permettendo alle aziende di scegliere dove insediarsi. Molti cantoni offrono aliquote fiscali inferiori al 10 per cento, rendendo il paese elvetico una destinazione popolare per le multinazionali. Nel 2022, lo stesso ha attratto circa 60 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri, dimostrando che la concorrenza fiscale resta un potente strumento per stimolare l’economia.

Cipro, infine, con un’aliquota del 12,5 per cento, è un altro esempio di successo di concorrenza fiscale in Europa. Le agevolazioni fiscali e i trattati per evitare la doppia imposizione lo rendono un’attrattiva destinazione per le società internazionali, soprattutto nel settore finanziario e delle telecomunicazioni. L’isola mediterranea è riuscita a rilanciarsi dopo la crisi economica del 2013, grazie proprio alla sua capacità di attrarre investimenti esteri, che nel 2021 hanno superato i 4 miliardi di euro.

Solo per completezza non è inutile segnalare che il fenomeno di cui si discute non si ferma al Vecchio Continente. Giurisdizioni offshore come le Isole Vergini Britanniche, le Cayman e le Bermuda, che peraltro occupano le prime tre posizioni del Corporate Tax Haven Index del 2023, svolgono un ruolo cruciale nell’economia globale, offrendo alternative agli Stati con sistemi fiscali opprimenti e costosi.

Da quanto sopra riportato, si trae dunque la dimostrazione che una fiscalità leggera può comunque generare importanti entrate per gli Stati, e inoltre che ridurre la pressione fiscale non è sinonimo di evasione o di perdita per le casse pubbliche, ma può essere una leva per la crescita economica.

Il vero problema, pertanto, non risiede nei paradisi fiscali, ma nella complessità e nell’onerosità dei sistemi fiscali nazionali di molti altri Paesi. In Italia, ad esempio, il cuneo fiscale è tra i più alti in Europa, con una pressione complessiva che si aggira attorno al 46,5 per cento. Ciò rende il Paese poco attraente per gli investimenti stranieri e spinge le aziende nazionali a cercare soluzioni fiscali più favorevoli all’estero. La stessa Spagna, nonostante la crisi economica post-pandemia, ha introdotto una “tassa sulle multinazionali digitali” che colpisce colossi come i già citati Amazon e Google, con l’obiettivo di recuperare risorse, ma con il rischio di scoraggiare ulteriori investimenti.

In sostanza, la concorrenza fiscale tra Stati dovrebbe essere vista come un’opportunità per migliorare l’efficienza dei regimi fiscali e non come una minaccia da eliminare. In un contesto globale, dove le imprese possono facilmente trasferire la propria sede, la competizione tra Governi diventa un motore per ridurre l’eccessiva tassazione e favorire la libertà economica. Invece di demonizzare i paradisi fiscali, i territori con sistemi fiscali più onerosi dovrebbero interrogarsi sulle ragioni che spingono le multinazionali a fuggire.

Né può essere presa in seria considerazione una eventuale armonizzazione fiscale, che è spesso proposta da organizzazioni internazionali come l’Ocse, la quale non rappresenta affatto una soluzione valida.

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Uniformare le aliquote a livello globale, infatti, non farebbe altro che penalizzare i Paesi che, attraverso una politica fiscale più leggera, cercano di rilanciare la propria economia. Ciò limiterebbe inoltre la libertà dei cittadini e delle imprese di scegliere dove investire i propri capitali. La concorrenza fiscale – è bene sottolineare – non è un’ingiustizia, ma uno strumento che permette agli Stati di misurarsi sul piano della competitività economica.

Alla luce dei rilievi che precedono appare pertanto evidente che l’accusa che viene frettolosamente rivolta ai paradisi fiscali, secondo cui sottrarrebbero risorse agli Stati che applicano una tassazione più alta, è semplicemente il frutto di una visione miope e statalista dell’economia. Se Irlanda o il Lussemburgo, o altri Stati, riescono ad attrarre investimenti grazie a un regime fiscale favorevole, non è perché “rubano” alle altre nazioni, ma perché offrono un contesto economico migliore. I governi dovrebbero quindi riflettere su come migliorare il proprio sistema fiscale, piuttosto che cercare di eliminare la concorrenza. Il tutto nell’intesa che la soluzione al problema non sta nell’imporre ulteriori restrizioni o regolamentazioni alle imprese, ma nel ridurre la pressione fiscale e semplificare la burocrazia. Se i sistemi fiscali diventano meno gravosi e più trasparenti, le aziende avranno meno incentivi a spostare la propria sede in paradisi fiscali. L’economia globale ha bisogno di maggiore libertà, non di maggiore regolamentazione.

Come ha osservato Pascal Salin, uno dei più influenti economisti liberali contemporanei: “La giustizia fiscale non consiste nel redistribuire la ricchezza, ma nel rispettare la libertà di ognuno di guadagnare ciò che merita”.

In un mondo sempre più interconnesso, la vera giustizia fiscale si ottiene in definitiva non attraverso l’armonizzazione e la tassazione, ma garantendo alle imprese e ai cittadini la libertà di scegliere dove e come operare, premiando chi è capace di offrire le migliori condizioni economiche.

Aggiornato il 04 ottobre 2024 alle ore 13:01



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