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Secondo il documento dell’ex premier, i trasporti dovrebbero assorbire 150 miliardi su 800 totali all’anno, eppure occupano solo 20 pagine su 400. Il finanziamento del settore dovrebbe avvenire attraverso un sistema regolatorio che annulli i rischi per i capitali privati, ma questo da un lato sarebbe un costo occulto per gli stati garanti degli investimenti, dall’altro creerebbe un diffuso sistema di rendite. Più condivisibile la raccomandazione di investire sui carburanti verdi per i tre settori in cui è più difficile abbattere le emissioni

Nel piano di Mario Draghi sulla competitività i trasporti occupano solo una ventina di pagine, e il messaggio complessivo non è chiarissimo da cogliere, poiché vi sono ben nove raccomandazioni finali, nel complesso abbastanza ovvie, e molte condivisibili.

Tutti i modi di trasporto richiedono miglioramenti, e sono necessari ingentissime risorse, pubbliche e private, per realizzarli.

L’ordine di grandezza degli investimenti nel settore è di 150 miliardi all’anno sugli 800 miliardi totali, e viene specificamente evidenziato il ruolo che in questa cifra hanno le stazioni di ricarica dei veicoli elettrici, che forse indica una priorità.

Da principio le considerazioni di Draghi si concentrano sull’abbattimento delle emissioni ambientali con l’elettrificazione del trasporto stradale, l’unico settore che ha visto le emissioni crescere. L’alternativa ferroviaria viene definita “non ancora competitiva rispetto al modo stradale”, senza specificare, però, se, quando e come questa alternativa potrebbe diventare competitiva.

Davvero niente di molto innovativo fin qui, se non il ruolo, da rilanciare, dell’elettrificazione dei veicoli stradali, confermato anche nelle politiche industriali raccomandate altrove, che puntano a recuperare lo svantaggio accumulato con la Cina. Un obiettivo davvero molto incerto e difficile.

Venendo ora alle nove raccomandazioni finali del capitolo sui trasporti, le prime tre risultano scritte in neretto, cioè emergere decisamente rispetto a quelle successive.

Corridoi da rifare

Vediamole. La prima recita: «Migliorare la pianificazione delle infrastrutture, focalizzandosi sulla competitività come complemento alla coesione e al trasporto multimodale».

Salta subito agli occhi la priorità di migliorare la pianificazione delle infrastrutture. Ma l’Europa ha già un piano infrastrutturale vigente su cui punta moltissimo, e che assorbe moltissime risorse pubbliche: è quello dei “corridoi europei” (Ten-T), principalmente ferroviari. Che tuttavia è in grave ritardo, con costi fuori controllo e risultati finora del tutto inadeguati.

Come non leggere qui una neanche tanto velata critica a come sono stati pianificati i corridoi europei? Se la cosa principale, e la più urgente, da fare per il settore dei trasporti è “migliorare la pianificazione”, non c’è che rivedere drasticamente l’attuale super piano europeo.

La seconda raccomandazione recita: «Mobilitare i finanziamenti pubblici e privati, incrementando le risorse per i collegamenti tra Stati, per la resilienza privata e per quella militare, e introdurre o migliorare i processi per attrarre i capitali privati, diminuendo i rischi».

Garanzie di Stato

Chiaro il messaggio di ridurre i rischi, cioè fornire garanzie di redditività agli investimenti infrastrutturali privati. Ma fornire garanzie per investimenti rischiosi vuol dire creare di fatto rendite. E quelle garanzie sono un costo pubblico mascherato. Se i progetti sono rischiosi, vuol dire che alcuni falliranno, e gli Stati dovranno intervenire a coprire i costi. È successo molto spesso, in particolare per il tunnel della Manica e molte autostrade italiane e francesi.

Per le ferrovie, per il semplice fatto che per questi investimenti lo Stato in Italia paga ex ante tutti i costi, e in altri paesi la massima parte. Questo perché la redditività degli investimenti ferroviari è comunque bassissima o negativa (nel senso che lo Stato deve coprire anche parte dei costi di esercizio).

Nel testo c’è un timido accenno a usare, per gli investimenti ferroviari, un “modello Rab” (che vuol dire di fatto separare gli investimenti in infrastrutture da quelli nei servizi ferroviari, cioè l’acquisto dei treni, che dovrebbe autofinanziarsi).

Le infrastrutture invece dovrebbero essere regolate, cioè essere finanziate da privati a cui si garantisce una redditività “di base”, sul modello delle concessioni autostradali italiane, che han dato pessima prova.

In Italia ci ha già provato una dozzina di anni fa il ministro Corrado Passera per la linea Milano-Genova dell’alta velocità, ma quando ha visto le previsioni di redditività finanziaria ci ha subito rinunciato, e lo Stato è tornato a pagare tutto.

La terza raccomandazione del rapporto Draghi è solo di buon senso: rimuovere le barriere esistenti all’integrazione tra i sistemi dei diversi paesi, per aumentare la concorrenza.

Invece vale la pena sottolineare un tema tecnologico innovativo e condivisibile, su cui il documento insiste molto: per i settori in cui è più difficile abbattere le emissioni dannose, aereo, navigazione marittima e camion pesanti, occorre investire moltissimo sui carburanti verdi, cioè non inquinanti.

Curioso tuttavia è che neppure per i camion pesanti si accenni alla strategia del cambio modale, cioè di spostare il traffico sulla ferrovia, una strategia che pure era alla base dei maggiori e più discussi investimenti previsti dal Pnrr.

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