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Il 4 giugno scorso, i lavoratori del cinema protestavano per l’ennesima volta a pochi passi dal ministero della Cultura. Quello stesso giorno, il ministro Gennaro Sangiuliano era in visita al Parco archeologico degli scavi di Pompei insieme all’ormai nota ex collaboratrice Maria Rosaria Boccia. Da allora, mentre continua il feuilleton estivo del ministro-giornalista, dopo quasi un anno di annunci, attese e promesse, nel pieno della calura agostana Sangiuliano ha approvato la riforma del tax credit introdotto da Franceschini nel 2016, cioè quel sistema di crediti d’imposta e agevolazioni fiscali che dà più che un aiuto alle produzioni e distribuzioni dei film in Italia.

Nell’estenuante attesa delle nuove norme, non conoscendo i budget a disposizione, molte produzioni cinematografiche però sono state costrette a fermarsi. Soprattutto le più piccole, quelle che hanno meno possibilità di accedere ai prestiti in banca. E pure gli investitori stranieri, che negli anni scorsi da noi hanno girato titoli come “Fast and Furious” e “Mission: Impossible”, non avendo certezza sugli investimenti, hanno fatto le valigie e si sono spostati altrove.

«Come ha denunciato dalla stessa Ape, l’Associazione dei produttori esecutivi, stanno venendo meno le produzioni estere che si venivano in Italia per periodi lunghi», racconta Umberto Carretti, membro del dipartimento produzione culturale della Slc Cgil. «L’instabilità normativa generata a lungo dal governo ha creato una situazione per cui i produttori stranieri oggi girano le scene all’estero e si limitano a venire in Italia soltanto per fare le cosiddette “cartoline”, le riprese delle località, per due o tre giorni al massimo e non più per tre o quattro settimane».

Risultato: nel 2023 si è registrata nel cinema italiano una riduzione di lavoro del 40 per cento rispetto rispetto ai picchi raggiunti dopo il 2020, quando l’occupazione nel settore è aumentata del 50 per cento grazie anche ai protocolli sanitari anti-Covid che hanno permesso di continuare a girare in pandemia, attraendo da noi molte produzioni straniere.

Il 5 settembre, i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil si sono riuniti per la prima volta attorno allo stesso tavolo con le associazioni datoriali – da Anica ad Ape, da Cna a Confartigianato – per fare il punto sulle correzioni necessarie alla legge. Per un settore che, dicono, dopo la riforma del tax credit, rischia di finire ai «titoli di coda», come recita il nome scelto dal comitato dei lavoratori che hanno protestato in questi giorni al Festival del cinema di Venezia, inviando l’ennesima lettera aperta al ministro.

La materia è complessa, fatta di numeri e percentuali ben lontani dai balletti delle stelle hollywoodiane che stanno allietando la Laguna in queste ore di tribolazione del ministro.

Per la prima volta non è un problema di soldi che mancano. Certo, il fondo per il cinema è passato dai 746 milioni del 2023 ai 696 milioni del 2024, con un taglio del cinque per cento. Ma non è questo il punto.

L’obiettivo di Sangiuliano, alla testa della cavalcata del governo contro «l’egemonia culturale» di sinistra, parte in realtà da premesse ragionevoli: ovvero un riordino dei costi. L’elenco dei beneficiari o di chi a fatto domanda per il tax credit produzione in questi anni è lungo. E i grandi successi della scorsa stagione ne hanno usufruito. Ad esempio:“Io Capitano” con 3,6 milioni; “C’è ancora domani”, con tre milioni. Mecondo i dati del ministero della Cultura, delle 1.354 opere cinematografiche che hanno richiesto il tax credit dal 2019 al 2023, quelle che sono uscite in sala effettivamente sono state soltanto 756, a fronte di 598 non uscite. Una sistemazione della norma, insomma, era necessaria.

Ma così per come è fatta, la riforma ora non piace né ai rappresentanti delle imprese né ai sindacati. E rischia di buttare il bambino con l’acqua sporca, mettendo in forte difficoltà migliaia di imprese e lavoratori che da questi progetti dipendono. «È necessario un riordino del settore che altrimenti rischia di vedere grandi quantità di risorse investite per una quantità di prodotto che poi magari non viene fruito», dice Carretti. «Ma non si può andare con l’accetta decidendo a priori chi può produrre film e chi no».

La riforma voluta da Sangiuliano e dalla sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni differenzia anzitutto tra opere cinematografiche «di mercato» e opere «con contributo selettivo», ovvero quei i film su personaggi italiani ed eventi dell’«identità culturale italiana» o di giovani autori, che per questo ricevono particolari contributi. Ci sono poi tre scaglioni di finanziamento: opere che costano più di tre milioni e mezzo, opere che costano meno di tre milioni e mezzo, e quelle sotto un milione e mezzo (opere prime e seconde, i documentari e i cortometraggi). Ed esiste un finanziamento ad hoc di 52 milioni per film su grandi personaggi nostrani, interpretati da attori italiani.

Il testo prevede che per poter accedere al credito d’imposta bisogna possedere già il 40 per cento di capitali privati quando si presenta la domanda, più un accordo vincolante con una delle prime venti società per fatturato nel mercato della distribuzione italiana. E qui cominciano i problemi. La riforma richiede poi per le opere di mercato un investimento minimo in promozione, che va dai trecentomila ai novantamila euro, oltre a un numero minimo di proiezioni in un certo numero di sale entro quattro settimane dall’uscita con almeno una proiezione nella fascia serale 18.30-21.30. Per la fascia di finanziamento sotto il milione mezzo, si richiedono in particolare duecentoquaranta proiezioni nell’arco di tre mesi. Ma «solo Nanni Moretti può garantirli perché ha una sala sua», aveva già fatto notare a giugno Ciro Scognamiglio, portavoce della protesta dei lavoratori.

Quello che contestano le rappresentanze del cinema è che per le produzioni indipendenti questi requisiti sono «insostenibili». A occhio e croce, bisognerebbe avere almeno 600mila euro da anticipare per un’opera prima. E il ricorso obbligatorio a una grossa società di distribuzione significa escludere dai finanziamenti gran parte dei film che non hanno grandi case di produzione alle spalle.

«Questo requisito fa da collo di bottiglia per i produttori indipendenti che potrebbero non trovare la disponibilità delle grandi società di distribuzione. E in più riduce la possibilità delle società di distribuzione che non sono tra le prime venti di fare quel lavoro che normalmente fanno per la promozione delle produzioni più piccole», spiega Carretti.

Tra registi, sceneggiatori, agenti, attori, distributori, esportatori, produttori e tecnici, si contano in Italia circa novemila imprese del cinema, novantacinquemila posti di lavoro diretti, più oltre centomila nelle filiere connesse. Con un fatturato di tredici miliardi di euro, prodotto soprattutto da piccole e medie imprese. Che sono anche quelle che «normalmente investono di più nella formazione, nell’innovazione e nella ricerca», dice Carretti. «L’industria del cinema produce lavoro e reddito». Si calcola che il settore ha un moltiplicatore economico di 3,54 euro di cui beneficia l’intera economica nazionale. E per ogni euro speso nel cinema, altri quattro ritornerebbero in termini di turismo. «Insomma è un’industria che promuove l’immagine del Paese all’estero e anche quella “italianità” tanto cara a Sangiuliano e al governo», dice Carretti.

Eppure il cinema italiano non naviga in buone acque, alle prese con la concorrenza delle grandi piattaforme di streaming, i livelli occupazionali che calano e l’export delle pellicole italiane che – come ha scritto Marco Gambaro sul Foglio – è circa la metà degli altri grandi produttori europei: quattordici per cento contro 28-35 per cento.

Mentre il Codice dello spettacolo lo scorso luglio è stato di nuovo rinviato di altri dodici mesi dal governo, proprio su proposta del ministro Sangiuliano. I sindacati lo aspettavano da tempo per poter disegnare il sistema di welfare del settore. «Questo è un lavoro naturalmente discontinuo, con tempi vuoti tra un lavoro e l’altro, e i lavoratori non riescono ad accedere alla Naspi (indennità di disoccupazione, ndr), perché non raggiungono il numero di giorni richiesti per ricevere il sussidio», spiega Sabina Di Marco, segretaria nazionale della Slc Cgil.

Le sigle sindacali avevano chiesto di introdurre una indennità di discontinuità sul modello della intermittence francese, ma la norma prodotta dal governo Meloni ha partorito un ammortizzatore sociale blando che di fatto va a coprire sì e no il 15 per cento dei lavoratori del settore, considerato che, stando ai dati Inps, la media dichiarata dagli attori è di soli ventuno giorni lavorativi all’anno. «Siccome le produzioni ripartono con lentezza, nel 2025 molti si troveranno disoccupati e senza ammortizzatori», dice Di Marco.

Il tutto mentre invece il sistema delle relazioni industriali nel cinema italiano sta conoscendo una nuova stagione. A inizio 2024, per la prima volta sono stati sottoscritti i contratti collettivi degli attori e degli stuntman. E tutti i contratti scaduti sono stati rinnovati. Tranne uno: manca ancora all’appello quelle delle troupe, scaduto nel 1999. Ben venticinque anni fa. Gennaro Sangiuliano era ancora direttore del Roma di Napoli.

 

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