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“E’ proprio ora che le ragazze e le donne afghane hanno bisogno di aiuto, del supporto della comunità internazionale, delle Ong, per tutelare i loro pochi diritti, per garantire loro l’accesso ai servizi essenziali. Quasi tutti sono andati via, ma non dimenticatevi della mia gente, del mio Paese”. A parlare con l’AGI è Mahdia Sharifi, rifugiata afghana in Italia, attivista, ex campionessa di Taekwondo in patria e membro della squadra olimpica dei rifugiati.
Sono già passati tre anni dal suo arrivo nel nostro Paese, in fuga da Kabul tornata sotto il dominio del regime talebano, il 15 agosto 2021.
Come Mahdia, migliaia di ragazze e donne afghane sono rifugiate in Europa, negli Stati Uniti e in Canada. Molte di loro portano avanti una battaglia personale, studiano, sono impegnate in programmi di advocacy e di sensibilizzazione per far conoscere la situazione del loro Paese e per difendere i diritti umani dei loro connazionali.
Tutte sono rimaste in stretto contatto con parenti, con gli affetti abbandonati forzatamente, motivo di sofferenza che il tempo lenisce ma non cancella. Le notizie che giungono loro direttamente – spesso si rifiutano di informarsi sui media – coincidono con i numeri contenuti nei rapporti stilati da autorevoli istituzioni e Ong internazionali. Documentano un apartheid di genere e una crisi umanitaria senza precedenti, forse la più grave al mondo.
Economia a crescita zero, disoccupazione record, povertà alle stelle, un terzo dei 45 milioni di afghani sopravvive soltanto con pane e tè, aiuti umanitari ridotti all’osso, depressione e suicidi femminili in aumento, clima di paura diffuso. Sono queste le notizie che giungono ciclicamente dall’Afghanistan: un vero e proprio bollettino di guerra. Ogni minimo mancato rispetto alla legge islamica vigente comporta intimidazioni, persecuzioni, punizioni corporee, anche pubbliche, fino all’arresto e alla tortura in carcere.
Come se non bastasse, negli ultimi mesi l’Afghanistan – quinta nazione al mondo maggiormente esposta al degrado ambientale e ai cambiamenti climatici – è stato flagellato da alluvioni distruttive che hanno mietuto centinaia di vittime e crescenti sfollati interni: almeno 38 mila dall’inizio dell’anno, di cui il 50% sono bambini. Nel 2023, per le violenti calamità naturali oltre 747 mila minorenni sono stati costretti a lasciare la propria casa.
“Le sanzioni internazionali e il blocco del sistema bancario hanno avuto un impatto devastante sull’economia afghana, peggiorando ulteriormente la situazione economica del Paese e creando gravi problemi per l’Emirato Islamico. Tuttavia, il sostegno economico da parte di Paesi come la Cina ha fornito un’ancora di salvezza”, riferisce all’AGI Livia Maurizi, responsabile dei programmi di Nove Caring Humans, una delle poche Ong italiane tutt’ora operativa in Afghanistan.
Di ritorno da una recente missione a Kabul, Maurizi valuta che “questi accordi economici hanno stabilizzato in parte l’economia e hanno reso l’Emirato meno dipendente dall’Occidente, rafforzando la loro posizione di governo e diminuendo la necessità di compromessi con la comunità internazionale. Questa nuova realtà economica ha reso i talebani più sicuri di sé e meno disposti a negoziare, indebolendo il ruolo dell’Occidente come interlocutore e riducendo il margine di influenza che i Paesi occidentali possono esercitare sul regime”.
Tuttavia, in un contesto volatile e complesso come quello afghano, esistono margini per un cambiamento positivo. Nonostante drastiche limitazioni alla libertà di movimento, politiche oppressive e restrizioni imposte sui diritti delle donne, in questi tre anni Nove è riuscita ad ampliare i suoi progetti di emergenza e di sviluppo.
“Ci sono spiragli e opportunità di intervento grazie al lungo, paziente e attento lavoro di mediazione e diplomazia. Abbiamo saputo trovare interlocutori tra i talebani disposti a discutere e a concedere margini di operatività. Le leve che utilizziamo per operare efficacemente includono la valorizzazione dei legami di fiducia esistenti, la collaborazione con leader locali rispettati, e la capacità di adattare il nostro linguaggio e le nostre proposte alle sensibilità culturali”, spiega Maurizi.
“Invece di proporre cambiamenti percepiti come estranei o minacciosi, sottolineiamo come le nostre iniziative possano rappresentare un sostegno al benessere e alla stabilità dell’intera comunità. Un approccio che riduce così le resistenze e ottiene maggiore accettazione”, precisa la responsabile dei programmi di Nove, attiva nella nazione asiatica da oltre 12 anni.
I loro progetti sono incentrati sull’imprenditoria femminile, come la produzione del ‘naan’ il tipico pane afghano – nei forni fatti ristrutturare a Kabul e dopo un’apposita formazione professionale – di cui un migliaio viene distribuito quotidianamente a famiglie indigenti, nell’ambito di “Bread for Women”, rinominato “Bread for Families”. I bambini sono un’altra categoria particolarmente a rischio sfruttamento: decine di loro vengono tutelati in un orfanotrofio della provincia di Kapisa, grazie al contributo dell’italiana Otb Foundation.
Nove si occupa anche di riabilitazione e inclusione sociale delle persone con disabilità, in collaborazione con il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc). Tra gli altri interventi decisivi dell’Ong romana, c’è il progetto di agro-pastorizia “I Semi della Rinascita”, appena avviato nelle tre province orientali di Kunar, Nangarhar e Laghman, finanziato dalla Cooperazione italiana, a sostegno di 6mila afghani particolarmente vulnerabili. Dal prossimo autunno a Kabul, “Nourishing and Nurturing” provvederà alla distribuzione di pacchetti alimentari a 850 persone, in particolare donne, spesso capofamiglia, in condizioni di malnutrizione acuta, unita a una formazione ad hoc per una corretta alimentazione, a tutela della propria salute e di quella dei figli.
Quindi nell’Afghanistan dei talebani, le donne sono tutt’ora il pilastro della società, eppure, sono state escluse dal terzo incontro dell’Onu, tenutosi a Doha a giugno. “L’esclusione delle donne – e dei diritti umani – dai lavori è stato un esempio eclatante e doloroso di come, ancora una volta, vengono considerate: come una presenza non necessaria, quasi un ornamento, anche nelle discussioni su Donne, Pace e Sicurezza. A causa di queste esclusioni persistenti e gravi, le politiche globali e la diplomazia continuano a fallire, ridicolizzando l’agenda Women Peace and Security (Wps), considerata come vuota retorica o sempre più militarizzata”. Ad analizzare le implicazioni di uno ‘svuotamento’ del ruolo e dei diritti delle donne è Arianna Briganti, socio-economista di sviluppo e specialista di gender justice e Wps.
Eppure, nonostante questa clamorosa esclusione dai prestigiosi consessi diplomatici internazionali, sono proprio le donne a essere a capo di alternative molto concrete a questo approccio inefficace. “Le donne afgane, sia all’interno che all’esterno del Paese, stanno coordinando gruppi della società civile e per i diritti umani, raggiungendo cambiamenti significativi sul campo. Hanno trovato modi per negoziare con i talebani, ottenendo il loro permesso per sostenere l’educazione delle ragazze e integrare le donne nel mondo del lavoro”, riferisce all’AGI Briganti, vicepresidente di Nove.
“Questi movimenti guidati dalle donne non fanno notizia, poiché è più facile continuare a vedere le donne afgane soltanto come le vittime per eccellenza, ‘condannate all’immanenza’, come ha detto brillantemente Simone de Beauvoir”, sottolinea l’interlocutrice, insignita dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana in riconoscimento del suo impegno per i diritti umani.
“Chi è rimasto lì guarda a noi, che viviamo all’estero, come un motivo di speranza, per il raggiungimento di tanti obiettivi, per la tutela dei diritti, di tutti. Dobbiamo essere quelle persone di cui le nostre famiglie hanno bisogno, di cui il nostro Paese ha bisogno. Dobbiamo continuare a far sentire la loro voce e l’istruzione è il miglior strumento per riuscirci”, conclude Fatima Mohammadi, impegnata in un progetto di advocacy lanciato da Nove in Italia. (AGI)

VQV



 

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