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Per le imprese, specie quelle italiane con una grande tradizione di conduzione familiare, il passaggio generazionale è un momento cruciale. Flavio Radrizzani, presidente ADR, multinazionale degli assali per mezzi agricoli, racconta come ha gestito il passaggio alla terza generazione che ci aveva annunciato inun’intervista del 2015.

Presidente, era il 2015 quando proprio alla nostra testata raccontò come stava organizzando la successione verso la terza generazione alla guida del gruppo ADR: è andato tutto come previsto?

In quel periodo ci trovavamo in pieno passaggio generazionale. I miei figli e i figli di mio fratello via via andavano a occupare le posizioni apicali dell’azienda dividendosi tra chi restava qui a Uboldo e chi partiva per nuovi progetti come quelli poi realizzati in Cina o in Australia. Oggi “la attraversata” è stata conclusa con successo: io faccio il presidente. Ho delegato quasi tutto. La terza generazione dei Radrizzani ha le redini del gruppo. Mi chiamano per le strette di mano, qualche firma e per i consigli quando le situazioni si complicano. E mi piace mettere a disposizione delle nuove leve l’esperienza accumulata in 60 anni di lavoro, soprattutto riguardo agli aspetti tecnici e produttivi. Il passaggio è concluso, ma la cosa che più soddisfa è un’altra.

Ci dica.

Nonostante questa delicata fase di transizione, il gruppo ADR è cresciuto ancora. Oltre 1.400 dipendenti per 15 sedi nel mondo. Di queste, 9 sono gli stabilimenti dove produciamo assali, sistemi frenanti e sospensioni per macchine agricole e industriali che vendiamo in oltre 50 Paesi, per un fatturato totale che supera i 300 milioni. Non era scontato. Ho una vita di lavoro alle spalle e ho imparato che nulla va come lo si prevede. I modelli offrono previsioni, ma la realtà presenta sempre una variabile in più. Soprattutto oggi che tutto è “ad alta velocità”, quando arriva “l’intoppo”, arriva prima che tu te ne possa accorgere. Ma ce l’abbiamo fatta al netto anche dei “terremoti” che il contesto internazionale ha provocato.

Ci faccia un esempio di problematiche internazionali che hanno impattato sul vostro business.

Quando si è chiuso il mercato russo, che per noi era enorme, così come lo era la stessa Ucraina, è stato un bel problema! Anzi, un doppio problema. Da una parte, essendo Paesi a forte vocazione agricola, rappresentavano un’area molto importante per il nostro fatturato. Dall’altra, poiché il nostro stabilimento in Polonia si trova proprio confine con l’Ucraina, da un giorno all’altro, ci siamo ritrovati con quasi cento operatori ucraini in meno, chiamati al fronte. Di punto in bianco abbiamo dovuto rinunciare a un quinto della manodopera specializzata del nostro più grosso stabilimento produttivo. Ci siamo riorganizzati e abbiamo gestito la cosa. Ma ricordo ancora le prime concitate riunioni tra la cabina di regia italiana e lo stabilimento produttivo polacco.

Quando parla di cabina di regia in Italia, cosa vuol dire esattamente? Tutte le decisioni vengono prese da qui?

Certo che no. Ci vuole verticalità e flessibilità. Un nucleo dirigenziale di un gruppo internazionale deve trovare il giusto mix tra gestione centralizzata e strategie di delega. In questo senso non abbiamo dogmi. La scelta di quali macchinari comprare oppure quali business unit aprire o chiudere viene guidata dall’Italia, ma poi ci sono situazioni che vanno amministrate secondo le dinamiche locali. Quando lavori in tutto il mondo non puoi avere una ricetta univoca. Ad esempio, la nostra sede in India era solo una start up fino a poco tempo fa, ma poi, improvvisamente, ha generato un grande incremento di fatturato. Abbiamo dovuto inserire diversi macchinari in poco tempo, quindi attingendo da manodopera e beni strumentali indiani.

E le scelte che riguardano la manodopera come sono gestite?

È importante avere il giusto mix tra italiani e addetti locali che per ovvie ragioni sono di solito la maggioranza. Gli italiani che si trovano nelle sedi estere hanno compiti più progettuali e organizzativi, ma abbiamo anche molti ingegneri e tecnici specializzati assunti sul posto. Vale un po’ il discorso dei macchinari. Ci vogliono le macchine speciali italiane, che sono fondamentali per le lavorazioni specifiche e i prodotti di alta qualità. Ma si possono comprare anche macchine più basiche per le lavorazioni tradizionali, per cui il gap con le italiane ormai è minimo. Inoltre, ADR tende sempre di più a comprare componentistica finita così da ridurre al minimo il rischio di mercato. Teniamo per noi le lavorazioni speciali e strategiche che facciamo con macchine occidentali. Ma oggi per un tornio o un centro di lavoro classico si può attingere anche dalla produzione asiatica.

Quindi, anche l’acquisto dei macchinari o lo studio delle commesse viene gestito dall’Italia?

Le scelte principali vengono prese in Italia. Qui abbiamo anche un nostro reparto che ingegnerizza e produce macchinari ad hoc, tipo linee di saldatura o robot di asservimento, creati da noi per le nostre esigenze. Le realizziamo appoggiandoci alle carpenterie lombarde. Poi, invece, ci sono soluzioni che puoi solo comprare dagli specialisti: ad esempio, in Polonia, abbiamo rifatto tutto il sistema di trasporto interno e di immagazzinaggio. Un lavoro di automazione che richiede enormi risorse economiche e organizzative, ma che una volta a regime, quando a monte sarà tutto pianificato, ridurrà al minimo trasporti e servizi interni allo stabilimento.

Anche la logistica interna influisce sulla competitività di una fabbrica?

Assolutamente! Per produrre in modo efficiente bisogna che il pezzo giusto arrivi nel posto esatto al momento corretto. E, in questo, i sistemi di navetta Automha progettati a Bergamo sono i migliori al mondo. Non a caso, la movimentazione interna, negli ultimi anni, è stata la voce di maggior investimento per noi. Sapere cosa hai in casa e dove si trova è determinate per non creare blocchi di produzione. Perché quando c’è grande movimentazione di materiale c’è anche tanta “caccia al pezzo smarrito”. In questo la digitalizzazione e i codici a barre hanno rivoluzionato tutto.

Ma come funziona esattamente l’acquisto di questi macchinari? Chi valuta e chi sceglie?

C’è un team specializzato che va a vedere, seleziona, discute e acquista. Anche perché quando si pensa a una nuova linea produttiva per prima cosa la si realizza in Italia. La si prova, la si aggiusta – c’è sempre qualcosa da sistemare – e una volta messa a punto la si replica nel Paese di destinazione. Tra l’altro, l’evoluzione di queste tecnologie è così rapida che tra la messa a punto in Italia e l’installazione nel Paese di destinazione emergono aggiornamenti anche importanti. Oggi le macchine sono diventate molto sofisticate, certe funzioni le si scopre solo adoperandole oppure confrontandosi con i clienti o direttamente con i produttori che si incontrano alle fiere di settore.

Allora le fiere hanno ancora la loro importanza…

Il mondo è cambiato. Questo settore qualche decade fa era il fiore all’occhiello della tecnologia. Sintesi di meccanica, elettronica e materiali. Oggi, con il termine tecnologia, si pensa a tutto ciò che è digitale. Questo, ovviamente, ha cambiato le fiere di settore. Se chiudo gli occhi e penso alle EMO o alle BI-MU che si organizzavano a Milano prima degli anni duemila quando un giorno non era abbastanza per visitare tutto…penso a un mondo che è molto lontano…Ma fare fiera ha ancora il suo perché. Noi non compriamo da catalogo. Portiamo i nostri operatori tecnici a visitare EMO e BI-MUperché c’è sempre qualcosa da analizzare, qualche contatto da trovare. Per chi va con la convinzione di guardarsi intorno nascono idee anche nell’anno in cui non si ha un obiettivo di acquisto. Vedere le fiere per il nostro personale tecnico è aggiornamento professionale.

Invece, tornando alla vostra produzione, quali sono le maggiori innovazioni nel campo della produzione di assali e sospensioni per macchine agricole?

Il grande passaggio c’è stato dalle sospensioni meccaniche a quelle idrauliche e pneumatiche che hanno escursioni molto più ampie e si adattano meglio ai terreni: nel caso delle più sofisticate anche in modo semiautomatico con l’intervento dell’elettronica che gestisce la distribuzione dei pesi sulle varie ruote e i sistemi di frenatura. Del resto, oggi i mezzi agricoli raggiungono velocità impensabili fino a pochi anni fa. In Germania, ad esempio, i trattori entrano in autostrada e sono omologati per velocità anche superiori a sessanta chilometri orari. Fermare un mezzo che pesa 35 tonnellate ed è lanciato a 60/80 km/h non è un gioco da ragazzi. E poi c’è sempre il cosiddetto “fattore agricoltore”…

Cioè?

Fare assali per i mezzi industriali è molto più semplice che farli per i mezzi agricoli. Nell’agricoltura i terreni possono essere i più disparati e “ogni contadino è un po’ un ingegnere” che inventa rapportature peso/grandezza tra motrice e rimorchio che nessun regolatore potrebbe approvare. Ma nel mondo dell’agraria norme e parametri hanno maglie più ampie e lise di quelle che caratterizzano il trasporto su strada. Noi lo sappiamo bene e studiamo assali e sospensioni pronti per i comportamenti più estremi. Anche in questo l’elettronica aiuta molto.

Ci sono progressi anche per quanto riguarda l’elettrificazione dei mezzi?

Alcuni grandi costruttori stanno sviluppando qualcosa, tipo sistemi di recupero dell’energia, ma trattasi di prototipi. Sicuramente, in futuro, si muoverà qualcosa, ma siamo ancora indietro rispetto all’automotive che, per la verità, credo abbia fatto il passo più lungo della gamba e molti se ne stanno accorgendo… Invece, nel nostro settore, c’è grande prospettiva di sviluppo per quanto riguarda i sistemi di guida autonoma. Ovviamente sono più facili da applicare per Paesi che hanno grandi estensioni agricole e possono permettersi chilometri e chilometri di piantagioni. Meno in un territorio come quello italiano che è stretto e articolato.

Un esempio di Paesi in cui la guida senza conducente può avere un futuro?

I campi di mais in Ucraina vanno dritti decine di chilometri oppure le piantagioni di canna da zucchero in Brasile: presentano filari retti e lunghissimi, ma anche gli Stati Uniti ove il settore agricolo risponde a canoni semplificati rispetto ai nostri. Basta pensare al classico ranch con la casa al centro e tutt’attorno infiniti campi coltivati. In queste fattorie vengono utilizzati ancora rimorchi che non hanno l’impianto frenante. Alzano il piede dall’acceleratore del trattore e quando si ferma si ferma. Non dovendo mai andare in strada le necessità tecniche sono inferiori. Detto ciò, negli ultimi anni anche negli Usa si acquistano mezzi più evoluti e questo per noi è determinate. E il nostro prossimo obbiettivo di investimento è appunto l’evoluzione delle nostra società che abbiamo negli Usa, che passerà da commerciale a produttiva.

Un sogno per il domani?

Trovare ingegneri e tecnici specializzati in Italia. Sono merce rara. Noi siamo promotori di diversi ITS, ma credo che dovremmo ridurre il numero di materie e focalizzarci sulle poche pratiche veramente importanti in fabbrica: sicurezza, ufficio tecnico, pianificazione e progettazione, qualità. “Tutto il resto è noia”. Credo che lo sforzo fatto in questi anni dal Governo, di concerto anche con le rappresentanze – penso ad esempio al progetto UCIMU Academy nel settore delle macchine utensili – ha prodotto il risultato di accendere i riflettori sul problema della mancanza di manodopera qualificata. Ma ciò che è si è creato finora sono percorsi scolastici troppo generici e teorici. Bisogna invece specializzare. Speriamo che, in futuro, si possano creare corsi specifici che preparino i ragazzi al lavoro di manifattura che oggi richiede livelli di sforzo fisico minori, ma livelli di competenza elevati e interdisciplinari.

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