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Presidente Meloni, a Caivano la voce del Governo si è sentita forte. Può diventare un luogo simbolo per trasformare, in profondità, terre fino a ora ritenute inespugnabili dalla camorra?
«È esattamente il nostro obiettivo. Intendiamo fare di Caivano un modello, e poi esportare quel modello in tutte le altre Caivano d’Italia. Non ci devono più essere zone nelle quali lo Stato indietreggia, sparisce, fa finta che vada tutto bene, e china la testa. Ci siamo assunti l’impegno di dimostrare che le cose possono cambiare, che non è vero che è tutto già scritto e che l’unica opzione che hai è arrenderti. In questi pochi mesi, abbiamo riportato a Caivano lo Stato, le Istituzioni, le Forze dell’ordine. Abbiamo detto alle persone perbene e oneste che dello Stato potevano tornare a fidarsi, e che noi saremmo stati al loro fianco. Che l’illegalità, lo spaccio e il traffico di droga, non erano più tollerati e che sarebbero stati perseguiti, con costanza e determinazione. Come dimostrano le operazioni ad alto impatto e interforze che si sono svolte in questi mesi e ai continui controlli straordinari del territorio. Non solo a Caivano ma in molte periferie d’Italia. Ma siamo orgogliosi di aver riportato a Caivano anche la speranza e la gioia delle cose normali, banali perfino. Come un parco giochi dove portare a giocare i propri figli, un asilo dove poter far crescere i bambini, un centro dove poter fare sport».

Alcuni investimenti sono già avvenuti, ma per diventare una realtà contagiosa del nuovo paradigma che tocchi le tante altre periferie del degrado serve ancora molto. Che cosa si aspetta che capiti o, meglio, che cosa bisognerà fare ancora?
«Mi aspetto innanzi tutto che il modello Caivano sia di ispirazione per tutte le persone di buona volontà, e spinga tutti, ciascuno per il ruolo e l’incarico che ricopre, a dare il proprio contributo. Perché ciò che abbiamo fatto a Caivano non è frutto del lavoro di un singolo, ma della determinazione, della tenacia e della forza di una grande squadra. Ognuno ha messo il suo tassello, e il risultato è stato un piccolo miracolo. Questo è lo schema vincente che dobbiamo replicare, ovunque ce ne sia bisogno. Ovviamente, è compito dello Stato creare le condizioni affinché ciò avvenga, ed è quello che noi stiamo facendo. Nell’ultimo decreto Coesione abbiamo stanziato tre miliardi di euro per le periferie di 14 Città metropolitane e 39 città medie del Sud. Risorse che ci consentiranno di avviare un grande programma di investimenti e di rigenerazione urbana e sociale».

Può bastare Don Patriciello per uscire dal dominio della criminalità e dalla logica del piagnisteo per fare scattare la fiducia contagiosa che produce organizzazione e attrae capitali nazionali e internazionali?
«Certo che don Patriciello non può bastare, ma è altrettanto vero che senza la sua forza, il suo coraggio e la sua testardaggine, probabilmente quello che è successo a Caivano non sarebbe stato possibile. Ognuno di noi può fare la differenza. Ciò che è fondamentale è crederci e dimostrare con i fatti che c’è sempre una scelta da fare. Possiamo scegliere di voltarci dall’altra parte, e lasciare i territori nel degrado e nell’abbandono, oppure decidere di rimboccarci le maniche e fare ciò che possiamo per cambiare le cose. A Caivano, con la nascita del nuovo Centro Pino Daniele’, abbiamo dimostrato che tutto questo è possibile. Che se lo Stato dimostra che c’è ed è presente, si innesca un meccanismo virtuoso che spinge anche i privati a dare il proprio contributo. A Caivano è successo, e ringrazio ancora tutte le imprese che ci hanno creduto. Se anche un solo bambino sarà salvato dall’abisso della droga o da un futuro di criminalità, vorrà dire che il nostro impegno non sarà stato vano e che è valsa la pena lavorare senza sosta. E la possibilità che potrebbero essere migliaia e migliaia ad avere un futuro migliore grazie a Caivano ricostruita fa venire i brividi. Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito a questo successo: tutti i Ministri, l’instancabile e impagabile Commissario Ciciliano, Sport e Salute, l’Esercito, la Polizia di Stato, i Carabinieri forestali, le Forze dell’Ordine, tutte le Amministrazioni e gli uffici che a vario titolo hanno dato una mano affinché questo piccolo miracolo potesse avverarsi».

C’è qualche possibilità di lasciare in pace il Vesuvio e di occuparsi seriamente dei Campi Flegrei trovando e spendendo bene le risorse che servono per la messa in sicurezza prima che il panico, causato dalle scosse del bradisismo, metta in crisi il miracolo attrattivo, turistico e industriale, di Napoli?
«Il Governo sta seguendo con molta attenzione ciò che sta succedendo nell’area flegrea. Il Ministro Musumeci, insieme alla Protezione civile, alle Autorità locali e ai Sindaci coinvolti, si sta occupando del dossier ed è al lavoro per definire le norme e individuare le risorse. La priorità assoluta è garantire la sicurezza dei cittadini».

Lei doveva essere la nuova Liz Truss che ha messo in fuga i mercati dall’Inghilterra, ma è accaduto l’esatto contrario. Potrà mai accadere che anche De Luca faccia pace con lei e Fitto?
«È vero: in molti avevano predetto catastrofi economiche con il governo di centrodestra. Mi auguro che oggi siano rincuorati e non dispiaciuti per i dati economici incoraggianti di questo primo anno e mezzo. Riguardo il Presidente De Luca, io non ho litigato con nessuno, mi limito a rispondere alle accuse infondate che vengono rivolte al Governo. L’altro ieri De Luca ha detto che saremmo andati a Caivano per fare una passeggiata elettorale, ieri ha corretto il tiro e ha detto che non si riferiva a Caivano. Meglio così. Ora mi auguro che la Regione Campania faccia la sua parte, come ad esempio sul potenziamento del trasporto pubblico tra Caivano e Napoli città. Perché senza collegamenti veloci ed efficienti, Caivano non può cogliere le opportunità di sviluppo e crescita che le vengono offerte.

Il cambio di paradigma è che il Mezzogiorno non è più periferia, ma centro del futuro. Da area marginale a opportunità storica per il Nord del Vecchio Continente e per la sponda Sud del Mediterraneo. Opportunità storica, soprattutto, per noi. Nel mondo lo hanno capito tutti, ma in casa nostra nella campagna elettorale è un tema inesistente. Perché?
«Perché per molte forze politiche è molto più facile cercare il consenso immediato, invece di lavorare ad una strategia di lungo periodo. Noi siamo convinti che il destino del Sud non sia quello di vivere di sussidi e assistenzialismo, ma di lavoro e di sviluppo. Deve avere, cioè, la possibilità di dimostrare finalmente il suo valore, anche sfruttando quegli asset strategici che finora non sono stati valorizzati. Parlo del mare. L’Italia è una piattaforma naturale al centro del Mediterraneo, un ponte tra Europa e Africa, un crocevia tra quello che avviene tra i due grandi spazi marittimi del globo (l’Atlantico e l’Indo-Pacifico), eppure si è comportata per decenni come se i nostri confini non fossero disegnati da oltre ottomila chilometri di coste. Ecco, noi abbiamo scelto di superare questo paradosso e di guardare finalmente al mare come una risorsa che va valorizzata con una visione d’insieme. Il primo mattone di questa strategia è il Piano del Mare: abbiamo messo intorno ad un tavolo tutti gli attori pubblici che hanno competenza sul mare, abbiamo fatto dialogare le filiere, raccolto le proposte delle imprese e varato un documento che si occupa di tutti gli aspetti che ruotano attorno a questa risorsa e che punta a obiettivi ambiziosi. Penso alla maggiore centralità che il nostro sistema portuale e logistico può e deve assumere nei traffici marittimi europei e internazionali, alla necessità di sostenere la transizione energetica del trasporto marittimo. A questo si aggiunge il lavoro che va fatto per rafforzare il primato italiano nella cantieristica e nell’industria armatoriale e la necessaria attenzione che dobbiamo mettere alle peculiarità di chi lavora nel settore marittimo. Senza dimenticare, ovviamente, alcuni asset nazionali che danno un contributo insostituibile al nostro Pil: il turismo, la pesca e l’acquacoltura. Ma mi riferisco anche ad una delle nuove sfide che ci attendono: la corsa al mondo subacqueo e alle risorse geologiche dei fondali. Un dominio’ nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano».

Che ruolo può avere la nuova coesione e la riforma della gestione comune dei fondi europei, frutto della sua intuizione politica di unire le deleghe di governo e del lavoro competente di Fitto in Italia e in Europa?
«Un ruolo decisivo per mettere il Sud nelle condizioni di competere ad armi pari con il resto del territorio nazionale. Noi abbiamo riformato le politiche di coesione, cioè lo strumento che serve a combattere le disparità tra i territori, per fare in modo che queste risorse, europee e nazionali, vengano spese al meglio. Parliamo complessivamente di circa 74 miliardi di euro dei quali 42 sono Fondi europei.
Risorse molto preziose che, però, troppo spesso in passato non sono state spese adeguatamente, e che con questo decreto invece sarà possibile mettere a terra in tempi certi e veloci. L’obiettivo è combattere i troppi divari ancora esistenti in Italia, a partire dal divario infrastrutturale che impedisce particolarmente al Sud di competere ad armi pari con il resto della Nazione. Allora, abbiamo introdotto anche una misura fondamentale per il Mezzogiorno, ovvero l’istituzione del Fondo perequativo infrastrutturale e l’obbligo di destinare alle regioni del Sud almeno il 40% dei fondi pluriennali per gli investimenti. Sempre con lo stesso decreto siamo occupati anche di lavoro e abbiamo liberato complessivamente oltre 2,8 miliardi di euro per creare nuova occupazione, soprattutto nelle regioni del Sud».

È questo il “piano Mattei” italiano di solidarietà e sviluppo? Voglio dire: occupazione di qualità, non assistenzialismo.
«Certo, e noi stiamo lavorando proprio in questa direzione. E la riforma delle politiche di coesione, l’istituzione degli Accordi di Coesione che concentrano le risorse europee su interventi strategici e condivisi con il territorio, non sono le uniche risposte che il Governo sta dando nei confronti del Sud. Penso all’attivazione della Zona economica speciale unica per l’intero Mezzogiorno, che ha sostituito le precedenti ZES limitate alle aree retroportuali e che non hanno funzionato come dovrebbero e che permetterà di investire nelle otto regioni del Sud, beneficiando di semplificazioni amministrative e agevolazioni fiscali. Stiamo lavorando alla stesura del Piano strategico, che definirà le scelte strategiche di fondo e ci consentirà di valorizzare i punti di forza del Mezzogiorno nel suo complesso, e dei diversi territori che lo compongono. Nei giorni scorsi, abbiamo firmato e pubblicato il decreto attuativo per rendere operativo il credito d’imposta per gli investimenti nella ZES Unica, e che complessivamente vale quasi due miliardi di euro. È un provvedimento nel quale crediamo fortemente e che siamo convinti garantirà al Mezzogiorno più sviluppo, più crescita, più occupazione e miglioramento della qualità dei servizi pubblici con gli interventi sulle reti».

È così difficile rendersi conto che qui, non altrove, ci saranno i poli del futuro e si giocherà la partita del lavoro legata ai nuovi equilibri geopolitici globali? È la volta buona perché Napoli, che oggi corre, torni ad essere la Capitale del Mediterraneo?
«Per molti anni i governi italiani si sono accontentati, a livello europeo e internazionale, di giocare il ruolo di “appendice” di ciò che veniva deciso nel cuore dell’Europa continentale. Questo ha fatto diventare, giocoforza, l’Italia la periferia d’Europa e il Sud d’Italia la periferia della periferia. Questo Governo ha ribaltato quest’impostazione, mettendo il Mediterraneo al centro della nostra visione geopolitica, spingendo l’intera Europa a tornare a guardare al suo fronte Sud. In questo modo, l’Italia è diventata centrale in una nuova dinamica internazionale, che comprende il Nord Africa e il Mediterraneo allargato. In questo modo, il Mezzogiorno è diventato il cuore pulsante di questa nuova strategia. Oggi più che mai essere del Sud d’Italia è motivo di orgoglio, e di grande prospettiva per il futuro».

Parliamoci chiaro. L’Europa non esiste, ma i nuovi conflitti rischiano di cancellarla dalla storia. Non abbiamo un esercito, una politica estera, di bilancio e neppure industriale comuni. Per di più decidiamo all’unanimità e, quindi, non decidiamo. È tutto da rifare o quasi. La maggioranza su cui punta lei si pone questi obiettivi?
«Io lavoro, da sempre, per costruire un’Europa diametralmente opposta rispetto a quella che abbiamo visto finora. Non vogliamo, cioè, un’Europa che pretenda di imporci cosa dobbiamo mangiare, quale auto guidare, in che modo ristrutturare la nostra casa, quali abiti indossare e magari anche come scrivere e pensare. Noi vogliamo un’Europa completamente diversa, forte e autorevole, che faccia meno ma meglio. Che si occupi, cioè, dei grandi temi, a partire dalla politica estera e di sicurezza comune, che sia protagonista negli scenari di crisi e che lasci poi tutto il resto alla sovranità e alla libertà delle Nazioni, nell’ottica di quel principio di sussidiarietà stabilito dai trattati europei. Questa è la storica posizione di Fratelli d’Italia, del centrodestra e dei conservatori europei, ed è quella che continuiamo a portare avanti».

Si sta giocando una partita per la leadership dei Sud del mondo, non crede che proprio il Sud italiano, potenziale hub del Mediterraneo, abbia tutti i numeri per candidarsi, se non altro perché è il più sicuro e regolamentato in quanto appartiene a un Paese del G7?
«Noi sosteniamo da sempre la vocazione dell’Italia, e segnatamente del Sud, a diventare l’hub di approvvigionamento energetico dell’Europa, sfruttando al meglio la nostra collocazione strategica nel Mediterraneo. È un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti. Un modello di sviluppo vantaggioso sia per le Nazioni che producono quell’energia – e che beneficiano delle risorse per la propria prosperità e benessere – sia per le Nazioni che consumano e che possono contare in questo modo su catene di approvvigionamento più vicine e resistenti agli shock esterni. Per carità, non stiamo inventando nulla di nuovo, perché questo è uno dei tanti insegnamenti che Enrico Mattei ci ha consegnato e che ha consentito all’Italia di essere una Nazione apprezzata e amata in vaste aree del mondo. A partire dall’Africa, dove il segno lasciato da Mattei è ancora visibile e continua a generare i suoi frutti. Perché tra le tante intuizioni che ci ha lasciato Mattei ce n’è una che ispira, in modo decisivo, il mio lavoro personale e quello di tutto il Governo. Non devi portare via qualcosa dalle Nazioni che ti ospitano, ma lasciare qualcosa e costruire qualcosa insieme a loro. Ed è per questo che nel mondo, in Africa come altrove, c’è grande domanda d’Italia e le porte sono aperte. È un’occasione che non dobbiamo sprecare, a partire dai progetti che stiamo portando avanti e che vogliamo progressivamente implementare. Penso all’interconnessione elettrica ELMED tra Italia e Tunisia, al nuovo Corridoio H2 Sud per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa all’Europa centrale passando per l’Italia o ai progetti pilota che intendiamo avviare in Kenya e in Marocco. Il primo dedicato allo sviluppo della filiera kenyota dei biocarburanti, e che punta a coinvolgere fino a circa 400 mila agricoltori entro il 2027, il secondo che punta a realizzare a Tangeri un grande centro di eccellenza per la formazione nelle energie rinnovabili».

Il piano Mattei, quello vero, come dice il nome stesso, siamo sempre stati noi, da La Pira e Moro fino al lungo letargo da cui ci ha risvegliato il suo governo. Non è, dunque, colpa sua se arriviamo tardi, ma senza soldi veri come si fa? Basta l’Eni che lascia in Africa il 90% di quello che trova lì o serve un’altra Europa?
«Il Piano Mattei può contare su una dotazione iniziale di oltre 5 miliardi e 750 milioni di euro tra crediti, garanzie e prestiti. Non parliamo di risorse sottratte all’Italia e regalate all’Africa, ma di veri e propri investimenti per una crescita comune, che porteranno ricchezza e benessere in Italia e nelle Nazioni africane coinvolte. È una dotazione che contiamo di implementare progressivamente e alla quale si aggiungeranno le risorse che saranno messe a disposizione dalle Istituzioni finanziarie internazionali, dalle Banche Multilaterali di Sviluppo, dall’Unione europea e da altri Stati donatori, che già si sono detti disponibili a sostenere progetti comuni. Infatti, noi crediamo che rivolgere lo sguardo all’Africa non sia qualcosa che competa solo a noi italiani ed europei, che siamo un po’ i “dirimpettai” del Continente e i suoi interlocutori più vicini, ma a tutta la comunità internazionale. Perché l’Africa è il Continente dove più che altrove si gioca il nostro futuro e dove più che altrove noi italiani ed europei siamo chiamati a segnare la differenza».

Il “nuovo mondo”, per capirci, sono l’Africa, il Mediterraneo allargato, l’India, ovviamente guerre permettendo. Il Piano Mattei è la sua seconda intuizione politica di rilevanza internazionale, che mette al centro questa speranza fatta di risorsa giovanile e materie prime, ma come la mettiamo con le armi dei russi e i soldi a usura dei cinesi che hanno preso il posto del secondo colonialismo francese e inglese e sono arrivati prima di noi?
«Io credo che la novità dell’approccio italiano sia il rifiuto di ogni approccio precedente, sia esso paternalistico, caritatevole o predatorio. Questo nuovo approccio si fonda sull’ascolto delle esigenze dei nostri partner africani e individua insieme le risposte che l’Italia può contribuire a fornire, mettendo a frutto le grandi capacità del nostro sistema imprenditoriale, accademico e culturale. Anche per questo le Nazioni africane con le quali ci stiamo confrontando nutrono grande aspettativa nei confronti dell’Italia, e noi non intendiamo deluderla. L’Africa è anche tra le priorità della Presidenza italiana del G7, ambito che ci offre la straordinaria occasione di amplificare le sinergie su cui possiamo contare e di svilupparle ulteriormente, con l’obiettivo di avviare con le Nazioni africane una nuova era di sviluppo e crescita».

Quanti sanno che Napoli è la prima città italiana per tasso di crescita di export manifatturiero dal post Covid a oggi e che, nella stessa classifica, addirittura la Campania è sul podio più alto tra i territori dei Paesi del G7? Il futuro è questo o quello della politica tradizionale delle clientele e dei redditi di cittadinanza?
«Ho sempre ritenuto offensivo, soprattutto per la grande tradizione del popolo campano, dipingere Napoli e il resto della regione come un territorio nel quale l’unico intervento possibile dello Stato fosse l’assistenzialismo. La Campania ha enormi potenzialità, che derivano dalla sua collocazione geografica e dalla possibilità di collegamenti, oltre alla grande notorietà di cui gode a livello internazionale. Tutti conosciamo la forza del Made in Italy, ma a volte si sottovaluta il fatto che a Napoli e in Campania questo elemento di riconoscibilità e ancora più marcato. E può rappresentare uno straordinario volano di sviluppo».



 

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