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Ileana Mendola, Girasole, 1978 I Ph. Luca Guarneri
Ileana Mendola, Girasole, 1978 I Ph. Luca Guarneri

«Esprimersi il proprio estro in Sicilia è difficile perché qui un artista è un’isola in un’isola». Breve ma efficace la considerazione di Ileana Mendola, artista catanese classe 1926, che ci offre lo sguardo intimo della terra d’origine, di chi ha raccolto un’eredità intellettuale e artistica, attraversando in modo singolare e affascinante il Novecento. Il lungo percorso dell’artista viene riscoperto nella esposizione “Ileana Mendola” (a cura di Antonio D’Amico) presso il Museo civico Castello Ursino di Catania (sino al 9 giugno 2024), all’interno di un progetto storico-artistico sostenuto dal FAI – Delegazione di Catania. Ileana nasce il 28 novembre 1926 quando i venti del primo conflitto mondiale si sono da poco placati, da un padre che incarna la sicilianità per eccellenza, Carmelo Mendola (Catania 1895-1976), un uomo poliedrico che è artista e imprenditore allo stesso tempo. Il capoluogo etneo lo ricorda per la monumentale “Fontana dei Malavoglia” in piazza Giovanni Verga.
L’analisi interpretativa condotta da D’Amico nella recente monografia da lui curata per i tipi di Silvana Editoriale (pp. 192, euro 28) rintraccia nella produzione artistica di Ileana Mendola due momenti distinti: il primo è ancorato alla pittura antica per tematiche e tecnica, il secondo, che a sua volta si sviluppa in due tempi, è di matrice concettuale e sperimentale e vede l’utilizzo della juta che scopre negli ultimi scampoli degli anni Sessanta. Il critico d’arte Riccardo Campanella asseriva che «la sua ricerca luministica non esplode mai nella prepotenza mediterranea e pur rifiutando l’astrattismo in sé e per sé, la pittrice si muove in una sintesi di naturalismo che va oltre la lezione del grande espressionismo tedesco».
Lo studio e il sentimento con cui Ileana Mendola ha guardato i sacchi di Burri e la lezione che ne ha tratto hanno condotto l’artista al raggiungimento di una propria cifra stilistica in cui il colore si è attenuato, si è ridotto a tonalità molto lavorate di bianco, grigio e nero.
Un continuo sperimentare in cui Mendola «attratta dalla possibilità di forzare i limiti della tela, di travalicare la bidimensionalità per sperimentare altri modi di rappresentare la realtà che si verificano soprattutto nella manipolazione della materia, quasi volesse mutarne l’identità» scrive Nicoletta Boschiero nel volume. Da un linguaggio giovanile strettamente figurativo e en plein air, che vede l’uso dei colori a olio su tavolette, l’artista passa, con le jute dipinte, a una breve ma intensa stagione “decorativa”, per approdare poi all’informale, che corrisponde al suo periodo produttivo più florido, in cui abbandona tecniche più tradizionali in favore di un processo sperimentale di manipolazione diretta della materia. Questo cambiamento procedurale, intrapreso nel 1970, si consolida e si assesta a partire dal 1975. Da quel momento, fino a oggi, l’artista si immerge in un mondo dove regna sovrana l’attitudine artigianale di una pratica coerente e rigorosa, ma sperimentale, condotta con una forte sensibilità femminile.
Usa strumenti che le consentono di “dipingere cucendo”, mettendo a fuoco un processo di ribellione che è allo stesso tempo estetico ma soprattutto interiore, con il quale distrugge quella formazione ricevuta in gioventù e che le deriva dal suo essere figlia d’arte, per costruire, in piena autonomia, la propria identità di artista. «Ad un certo punto – afferma – guardando i miei dipinti su tavoletta mi sono detta: ma perché non mi esprimo con l’ago e il filo visto che sono una donna? E così sono diventata cucitrice. Questo è ormai per me un quadro». L’attività e la produzione artistica di Carmelo e Ileana Mendola è stata custodita in un omonimo Atelier che dal 1980 diviene spazio d’incontro culturale per la società catanese e non solo; vieni, infatti, istituito il CIAC – Centro Informazione Arte Contemporanea. Il CIAC ha rappresentato per Catania per più di un decennio un punto di riferimento in un quadro culturale multidisciplinare di livello nazionale ed internazionale. Grazie all’impegno di Ileana e al supporto del critico teatrale Domenico Danzuso, il centro raccolse il contributo di personalità come Leonardo Sciascia, Dario Fo, Gregory Corso, Gesualdo Bufalino, Carlo Muscetta, Umberto Pugelli. L’artista non si è mai disgiunta nel suo lavoro da un’inclinazione fortemente femminile, muovendosi sicura nel solco di un’indagine artistica di alto profilo; l’azzardo delle sue tecniche inconsuete le ha permesso nel tempo di emergere in modo semplice e per certi versi inconsapevole, consentendole di inserire il suo lavoro nel panorama informale del Novecento siciliano con una precisa connotazione.

L’illustrazione d’apertura è di Antonio Delluzio

BUCKINGHAM PALACE, SANDRINGHAM CON INVITO AL CASTELLO DI «DOWNTON ABBEY»

di Enrica Roddolo

Buckingham Palace, LondraBuckingham Palace, Londra
Buckingham Palace, Londra

Mancavano ancora tendaggi e tappeti e i consiglieri a corte dissero alla giovane Vittoria che si poteva rinviare il trasloco a Buckingham Palace. Ma lei aveva voglia di dare il via alla sua nuova vita di regina nel nuovo palazzo reale dove arrivò in carrozza il 13 luglio 1837. Da quel giorno il palazzo che si staglia imponente alla fine del Mall, affacciato su Green Park, è l’emblema dei Windsor e della monarchia più famosa al mondo. Mai come in questo 2024 sotto i riflettori. Qui Vittoria e il marito Alberto che amavano la vita di società nel 1845 fecero notare al primo ministro Sir Robert Peel la necessità di una sala per «invitare durante la Season ospiti per balli, concerti». Ecco come nacque, nel 1853, la sala banchetti che ha accolto capi di stato, re e regine, da JFK a Obama e Xi Jinping. E quando qui arrivò la giovane Elisabetta disse: «È tutto così grande che si può andare in bicicletta». Per Elisabetta come per Carlo è Buckingham Palace il cuore della monarchia: da questo balcone si affacciano i Windsor, in questi giardini i Royal garden party. E qui vi condurrò con l’ultimo viaggio Royal d’estate del Corriere della Sera, destinazione: Londra dal 4 al 7 settembre (dopo Royal Monaco, Royal Copenaghen e Scozia reale ). Entreremo nelle stanze dove il re incontra gli ospiti e sono battezzati gli eredi al trono fin nella sala ricevimenti, splendida di stucchi e ori. «Non pensiate che io autorizzi ulteriori spese», disse il duca di Wellington a Giorgio IV. Ma furono stanziate altre 100mila sterline e già nel 1828 le spese sfioravano le 300 mila sterline, come racconto nel libro «Elisabetta e i segreti di Buckingham Palace» (Cairo). E andremo anche nella tenuta di campagna di Sandringham, dove i Windsor trascorrono il Natale, per un tea time regale, lì dove nacque lo smoking. Sì perché proprio qui il futuro re Edoardo VII domandò al sarto Henry Poole, di tagliargli un capo più comodo e informale della marsina con le code per le cene fra amici nella tenuta di Sandringham dove scopriremo anche il nuovo giardino di re Carlo III, svelato pochi mesi fa. E poi a Windsor, nel maniero che ha dato il nome alla dinastia nel 1917. Quindi il caffé con Lady Carnarvon, castellana di Highclere che ha accolto la regina Vittoria e lo scrittore Henry James, e dove visse Lady Almina figlia di Alfred de Rothschild. In questo maniero è stata ambientata la saga «Downton Abbey». Pascoli e valli finché ecco le guglie del maniero consegnato nel 1860 dall’architetto Charles Barry, lo stesso delle Houses of Parliament a Londra, dove entreremo: nella House of Lords dove il re e la regina siedono sul trono per il famoso King’s Speach. Un viaggio nel cuore della più osservata monarchia al mondo.

Clicca qui per trovare tutti i dettagli del viaggio e, se vuoi, per prenotare. Si prenota anche al numero 02-303.294.03 (attivo dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18; il sabato dalle 9 alle 13). Sempre per ricevere informazioni oppure per prenotare potete mandare una email a inviaggioconcorriere@rcs.it InViaggio è anche sui social. Su Instagram (@Inviaggioconcorriere) e su Facebook (www.facebook.com/InViaggioConCorriere/) La nostra newsletter, gratuita, arriva ogni giovedì Info corriere.it/newsletter

VOCI DAL VIAGGIO – VIETNAM

di Michela Mantovan

La Baia di Halong e i grattacieli di Saigon, il cielo sopra Hanoi, i ritmi del Delta del Mekong: il Vietnam è un Paese sospeso tra una storia millenaria e un futuro sempre più incalzante. In mezzo, gli echi della ferita della guerra con l’America. I vietnamiti sono un popolo che, come pochi altri, sa andare avanti e credere nella propria forza e che in nome di questo si sta sempre più imponendo fra le tigri asiatiche. La bellezza di Hoi An racconta una storia di integrazione dalle radici antiche, è un luogo dove Cina, Giappone e Vietnam si sono incontrate e hanno saputo creare qualcosa di completamente nuovo. Non possiamo non conoscere questo Paese risorto dall’agente orange e dalle bombe al fosforo che l’esercito americano ha lanciato sulla giungla per snidare i Viet Cong, uccidendo 4 milioni di persone, per lo più civili. La meravigliosa vegetazione tropicale, punteggiata di alberi da frutta, simboleggia più di ogni altra cosa la capacità di risorgere dalle proprie ceneri.

IN VIA DEL CAMPO NASCONO I FIORI

di Lucia Cimini

Pescatori di Hoi AnPescatori di Hoi An
Pescatori di Hoi An

A Genova la conoscono tutti, forse a causa del suo fascino peccaminoso anche se ormai decisamente sbiadito. Insieme a piazzetta Fregoso e vico Untoria, via del Campo segna il perimetro del famigerato “ghetto” di Genova. La strada è incastonata tra l’antica Porta dei Vacca, un vecchio portale risalente al XII secolo, e via Lomellina dove troviamo la casa natale di Giuseppe Mazzini. Lunga e stretta come lo sono quasi tutti i vicoli di Genova, la via è circondata da palazzi alti che non le permettono di accogliere pienamente il caldo sole ligure. Un elemento di interesse è sicuramente la fontana di Piazza Vacchero, costruita nel 1644 dagli eredi del patrizio genovese Giulio Cesare Vachero condannato a morte per una congiura ai danni della Repubblica genovese. È lecito domandarsi se da quel brutto affare gli abitanti del quartiere abbiano preso il cattivo esempio: in epoca più contemporanea, la strada divenne la parte di un fortino dove la legge e i costumi bourgeoises non potevano entrare. Ricettazione, spaccio e prostituzione si mescolavano insieme. La celebre “Via del campo” di Fabrizio De André è dedicata proprio a questa via e ad una delle tante prostitute che esercitavano nei “bassi”, le squallide abitazioni poste al piano strada. Ancora fino agli anni ’70 il ghetto di Genova era un universo parallelo all’interno della città, epicentro di reati e scandali: nel 1972 la celebre fotografa Lisetta Carmi diede alle stampe il suo libro-inchiesta “I travestiti” nel quale descriveva, attraverso scatti di crudo realismo, la vita della folta comunità transgender che animava il ghetto.
Ma perché si chiama così?
La via ha origini romane, ma solo nel basso medioevo iniziò l’urbanizzazione di questa parte di Genova, anticamente infatti qui erano presenti orti e campi coltivati. Oggi la via ha decisamente perso la sua vocazione peccaminosa che ormai è affidata solo ai racconti di qualche superstite. Qui aveva sede il leggendario negozio di dischi e strumenti musicali di Gianni Tassio che deve la sua fama alla frequentazione di De Andrè e di altri famosi cantautori genovesi. Nel 2012 il Comune di Genova ha rilevato il negozio trasformandolo nel museo “Via del Campo 29 rosso”, oggi visitabile. Come molte città toccate dalla gentrification, Genova ha riqualificato gran parte dei vecchi vicoli frequentati ormai da turisti meno minacciosi, forse, dei malviventi che li popolavano un tempo.

InViaggio L’arte di Ileana Mendola: «A Catania sperimentazione continua»

27 maggio 2024 (modifica il 27 maggio 2024 | 07:23)

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